mercoledì 30 marzo 2016

Lasciatevi riconciliare con Dio - predica del Venerdì Santo 2016 nella Basilica di San Pietro.

di Padre Raniero Cantalamessa
26 marzo 2016

“Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione […].Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: ‘Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso’. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2 Cor 5, 18-6,2).
L’appello dell’Apostolo a riconciliarsi con Dio non si riferisce alla riconciliazione storica, avvenuta sulla croce; non si riferisce neppure alla riconciliazione sacramentale che avviene nel battesimo e nel sacramento della riconciliazione; si riferisce una riconciliazione esistenziale e personale da attuare nel presente. L’appello è rivolto ai cristiani di Corinto che sono battezzati e vivono da tempo nella Chiesa; è rivolto, perciò, anche a noi, ora e qui. “Il momento favorevole, il giorno della salvezza” è, per noi, l’anno della misericordia che stiamo vivendo.
Ma che significa, in senso esistenziale e psicologico, riconciliarsi con Dio? Una delle cause, forse la principale, dell’alienazione dell’uomo moderno dalla religione e dalla fede è l’immagine distorta che esso ha di Dio. Qual è l’immagine “predefinita” di Dio nell’inconscio umano collettivo? Basta, per scoprirlo, porsi questa domanda: “Quali associazione di idee, quali sentimenti e quali reazioni sorgono in te, prima di ogni riflessione, quando, nella preghiera del Padre nostro, arrivi a dire: “Sia fatta la tua volontà”?
Chi lo dice, è come se chinasse interiormente la testa rassegnato, preparandosi al peggio. Inconsciamente, si collega la volontà di Dio con tutto ciò che è spiacevole, doloroso, a ciò che, in un modo o nell’altro, può essere visto come mutilante la libertà e lo sviluppo individuali. È un po’ come se Dio fosse nemico di ogni festa, gioia, piacere. Un Dio arcigno e inquisitore.
Dio è visto come l’Essere supremo, il Signore del tempo e della storia, cioè come un’entità e una legge che si impone all’individuo dall’esterno; nessun particolare della vita umana gli sfugge. L’uomo carnale ha le sue concupiscenze; desidera il piacere, il potere, il denaro, la roba d’altri, la donna d’altri. In questa situazione, Dio gli appare come colui che gli sbarra la strada con i suoi “Tu devi”, “tu non devi”. Anziché una volontà d’amore che vuole solo la felicità dell’uomo, la volontà di Dio, gli appare come una volontà ostile. All’origine di tutto c’è l’idea di Dio “rivale” dell’uomo che il serpente instillò nel cuore di Adamo ed Eva e che alcuni pensatori moderni si incaricano di tenere in vita, affermando che “dove nasce Dio muore l’uomo” (Sartre).
Certo, non si è mai ignorata, nel cristianesimo, la misericordia di Dio! Ma ad essa si è affidata soltanto l’incombenza di moderare gli irrinunciabili rigori della giustizia. La misericordia era l’eccezione, non la regola. L’anno della misericordia è l’occasione d’oro per riportare alla luce la vera immagine del Dio biblico che non solo fa misericordia, ma è misericordia.
Questa affermazione ardita si basa sul fatto che “Dio è amore” (1 Gv 4, 8.16). Solo nella Trinità, Dio è amore, senza essere misericordia. Che il Padre ami il Figlio, non è grazia o concessione; è necessità; egli ha bisogno di amare per esistere come Padre. Che il Figlio ami il Padre, non è misericordia o grazia; è necessità, anche se liberissima; egli ha bisogno di essere amato e di amare per essere Figlio. Lo stesso si deve dire dello Spirito Santo che è l’amore fatto persona.
È quando crea il mondo e in esso delle creature libere che l’amore di Dio cessa di essere natura e diventa grazia. Questo amore è una libera concessione, potrebbe non esserci; è ḥesed, grazia e misericordia. Il peccato dell’uomo non cambia la natura di questo amore, ma provoca in esso un salto di qualità: dalla misericordia come dono si passa alla misericordia come perdono.
Dall’amore di semplice donazione, si passa a un amore di sofferenza, perché, misteriosamente, Dio soffre di fronte al rifiuto del suo amore. “Ho allevato e fatto crescere figli, dice Dio, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1, 2). Chiediamo a tanti padri e a tante madri che ne hanno fatto l’esperienza, se questa non è sofferenza, e tra le più amare della vita.
* * *
E che ne è della giustizia di Dio? È, essa, dimenticata, o sottovalutata? A questa domanda ha risposto una volta per tutte san Paolo. Egli inizia la sua esposizione, nella Lettera ai Romani, con una notizia: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio” (Rom 3, 21). Ci domandiamo: quale giustizia? Quella che dà “unicuique suum”, a ognuno il suo, che distribuisce, cioè, premi e castighi secondo i meriti? Ci sarà, certo, un tempo in cui si manifesterà anche questa giustizia di Dio. Dio, infatti, ha scritto poco prima l’Apostolo,
“renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Rom 2, 6-8).
Ma non è di questa giustizia che l’Apostolo parla quando scrive: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio”. Il primo è un evento futuro, questo un evento in atto, avviene “ora”. Se così non fosse, quella di Paolo sarebbe una affermazione assurda, smentita dai fatti. Dal punto di vista della giustizia retributiva, nulla è cambiato nel mondo con la venuta di Cristo. Si continuano, diceva Bossuet , a vedere spesso i colpevoli sul trono e gli innocenti sul patibolo; ma perché non si creda che c’è al mondo una qualche giustizia e un qualche ordine fisso, seppure rovesciato, ecco che a volte si vede il contrario, e cioè l’innocente sul trono e il colpevole sul patibolo. Non è, perciò, in questo che consiste la novità recata da Cristo. Ascoltiamo ciò che dice l’Apostolo:
“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù” (Rm 3, 23-26).
Dio si fa giustizia, facendo misericordia! Ecco la grande rivelazione. L’Apostolo dice che Dio è “giusto e giustificante”, cioè è giusto con se stesso, quando giustifica l’uomo; egli, infatti, è amore e misericordia; per questo fa giustizia a se stesso – cioè, si dimostra veramente per quello che è – quando fa misericordia.
Non si capisce nulla di tutto ciò, se non si comprende cosa vuol dire, esattamente, l’espressione “giustizia di Dio”. C’è il pericolo che uno senta parlare di giustizia di Dio e, non conoscendone il significato, anziché incoraggiato, ne resti spaventato. Sant’Agostino lo aveva già spiegato chiaramente: “La ‘giustizia di Dio’, scriveva, è quella per la quale, per sua grazia, noi diventiamo giusti, esattamente come ‘la salvezza del Signore’ (Sal 3,9) è quella per la quale Dio salva noi” . In altre parole, la giustizia di Dio è l’atto mediante il quale Dio rende giusti, a lui graditi, quelli che credono nel Figlio suo. Non è un farsi giustizia, ma un fare giusti.
Lutero ha avuto il merito di riportare alla luce questa verità, dopo che per secoli, almeno nella predicazione cristiana, se ne era smarrito il senso. E’ di questo soprattutto che la cristianità è debitrice alla Riforma, di cui il prossimo anno ricorre il quinto centenario. “Quando scoprii questo, scrisse più tardi il riformatore, mi sentii rinascere e mi pareva che si spalancassero per me le porte del paradiso” .Ma non sono stati né Agostino né Lutero a spiegare così il concetto di “giustizia di Dio”; è la Scrittura che lo ha fatto prima di loro:
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia” (Tt 3, 4-5). “Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccato, ci ha fatto rivivere con Cristo, per grazia siete stati salvati” (Ef 2, 4)
Dire perciò: “Si è manifestata la giustizia di Dio”, è come dire: si è manifestata la bontà di Dio, il suo amore, la sua misericordia. La giustizia di Dio, non solo non contraddice la sua misericordia, ma consiste proprio in essa!
Cosa è avvenuto sulla croce di tanto importante da giustificare questo cambiamento radicale nei destini dell’umanità? Nel suo libro su Gesú di Nazareth, Benedetto XVI ha scritto:
“L’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà incondizionata di Dio” .
Già Sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), che più di tutti ha riflettuto sul rapporto tra giustizia e misericordia, scriveva: “Quale condotta può essere più misericordiosa di quella del Padre che dice al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di ciò che potrebbe salvarlo: “Prendi il mio Unigenito e offrilo per te”?” .
Dio, non si è accontentato di perdonare i peccati dell’uomo; ha fatto infinitamente di più; li ha presi su di sé, se li è addossati. Il Figlio di Dio, dice Paolo, “si è fatto peccato a nostro favore”. Parola terribile! Già nel medioevo c’era chi trovava difficile credere che Dio esigesse la morte del Figlio per riconciliare a se il mondo. San Bernardo gli rispondeva: “Non fu la morte del Figlio che piacque a Dio, la sua volontà di morire spontaneamente per noi”: “Non mors placuit sed voluntas sponte morientis.” . Non la morte, ma l’amore ci ha salvati!
L’amore di Dio ha raggiunto l’uomo nel punto più lontano in cui si era cacciato fuggendo da lui, e cioè nella morte. La morte di Cristo doveva apparire a tutti come la prova suprema della misericordia di Dio verso i peccatori. Ecco perché essa non ha neppure la maestà di una certa solitudine, ma viene inquadrata in quella di due briganti. Gesù vuole restare amico dei peccatori fino alla fine, per questo muore come loro e con loro.
* * *
È ora di renderci conto che l’opposto della misericordia non è la giustizia, ma la vendetta. Gesú non ha opposto la misericordia alla giustizia, ma alla legge del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Perdonando i peccati, Dio non rinuncia alla giustizia, rinuncia alla vendetta; non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 18, 23). Gesú sulla croce non ha chiesto al Padre di vendicare la sua causa.
L’odio e la ferocia degli attentati terroristici di questa settimana a Bruxelles ci aiutano a capire la forza divina racchiusa in quelle ultime parole di Cristo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Per quanto lontano possa spingersi l’odio degli uomini, l’amore di Dio è stato, e sarà, sempre più forte. A noi è rivolta, nelle presenti circostanze, l’esortazione dell’apostolo Paolo: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rom 12, 21).
Dobbiamo demitizzare la vendetta! Essa è diventata un mito pervasivo che contagia tutto e tutti, a cominciare dai bambini. Gran parte delle storie portate sullo schermo e dei giochi elettronici sono storie di vendetta, spacciate per vittoria dell’eroe buono. Metà, se non più, della sofferenza che c’è nel mondo (quando non si tratta di mali naturali) viene dal desiderio di vendetta, sia nei rapporti tra le persone che in quelli tra gli stati e i popoli.
È stato detto che “il mondo sarà salvato dalla bellezza” ; ma la bellezza può anche portare alla rovina. C’è una sola cosa che può salvare davvero il mondo, la misericordia! La misericordia di Dio per gli uomini e degli uomini tra di loro. Essa può salvare, in particolare, la cosa più preziosa e più fragile che c’è, in questo momento, nel mondo, il matrimonio e la famiglia.
Avviene nel matrimonio qualcosa di simile a quello che è avvenuto nei rapporti tra Dio e l’umanità, che la Bibbia descrive, appunto, con l’immagine di uno sposalizio. All’inizio di tutto, dicevo, c’è l’amore, non la misericordia. Questa interviene soltanto in seguito al peccato dell’uomo. Anche nel matrimonio, all’inizio non c’è la misericordia, ma l’amore. Non ci si sposa per misericordia, ma per amore. Ma dopo anni, o mesi, di vita insieme, emergono i limiti reciproci, i problemi di salute, di finanze, dei figli; interviene la routine che spegne ogni gioia.
Quello che può salvare un matrimonio dallo scivolare in una china senza risalita è la misericordia, intesa nel senso pregnante della Bibbia, e cioè non solo come perdono reciproco, ma come un “rivestirsi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine e di magnanimità” (Col 3, 12). La misericordia fa sì che all’eros, si aggiunga l’agape, all’amore di ricerca, quello di donazione e di con-passione. Dio “si impietosisce” dell’uomo (Sal 102, 13): non dovrebbero marito e moglie impietosirsi l’uno dell’altro? E non dovremmo, noi che viviamo in comunità, impietosirci gli uni degli altri, anziché giudicarci?
Preghiamo: Padre celeste, per i meriti del Figlio tuo che sulla croce “si è fatto peccato” per noi, fa’ cadere dal cuore delle persone, delle famiglie e dei popoli, il desiderio di vendetta. Fa’ che l’intenzione del Santo Padre nel proclamare questo anno santo della misericordia, trovi una risposta concreta nei nostri cuori e faccia sperimentare a tutti la gioia di riconciliarsi con te nel profondo del cuore. Così sia!
1.Jacques-Bénigne Bossuet, “Sermon sur la Providence” (1662), in Oeuvres de Bossuet, eds. B. Velat and Y. Champailler (Paris: Pléiade, 1961), p. 1062.
2.S. Agostino, Lo Spirito e la lettera, 32,56 (PL 44, 237).
3.Martin Lutero, Prefazione alle opere in latino, ed . Weimar, 54, p.186.
4.Cf. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 151.
5.S. Anselmo, Cur Deus homo?, II, 20.
6.S. Bernardo di Chiaravalle, Contro gli errori di Abelardo, 8, 21-22 (PL 182, 1070).
7.F. Dostoevskij, L’Idiota, parte III, cap.5.

giovedì 24 marzo 2016

Santa Messa del Crisma nella Basilica Vaticana, 24.03.2016

Ascoltando dalle labbra di Gesù, dopo la lettura del passo di Isaia, le parole «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21), nella sinagoga di Nazareth avrebbe ben potuto scoppiare un applauso. E poi avrebbero potuto piangere dolcemente, con intima gioia, come piangeva il popolo quando Neemia e il sacerdote Esdra leggevano il libro della Legge che avevano rinvenuto ricostruendo le mura. Ma i Vangeli ci dicono che sorsero sentimenti opposti nei compaesani di Gesù: lo allontanarono e gli chiusero il cuore. All’inizio «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); ma dopo, una domanda insidiosa si fece largo: «Non è costui il figlio di Giuseppe, il falegname?». E infine: “Si riempirono di sdegno” (Lc 4,28). Volevano buttarlo giù dalla rupe... Si adempiva così quello che il vecchio Simeone aveva profetizzato alla Madonna: sarà «segno di contraddizione» (Lc 2,34). Gesù, con le sue parole e i suoi gesti, fa in modo che si riveli quello che ogni uomo e donna porta nel cuore.

E lì dove il Signore annuncia il vangelo della Misericordia incondizionata del Padre nei confronti dei più poveri, dei più lontani e oppressi, proprio lì siamo chiamati a scegliere, a «combattere la buona battaglia della fede» (1 Tm 6,12). La lotta del Signore non è contro gli uomini ma contro il demonio (cfr Ef 6,12), nemico dell’umanità. Però il Signore «passa in mezzo» a coloro che cercano di fermarlo “e prosegue il suo cammino” (cfr Lc 4,30). Gesù non combatte per consolidare uno spazio di potere. Se rompe recinti e mette in discussione sicurezze è per aprire una breccia al torrente della Misericordia che, con il Padre e lo Spirito, desidera riversare sulla terra. Una Misericordia che procede di bene in meglio: annuncia e porta qualcosa di nuovo: risana, libera e proclama l’anno di grazia del Signore.

La Misericordia del nostro Dio è infinita e ineffabile, ed esprimiamo il dinamismo di questo mistero come una Misericordia “sempre più grande”, una Misericordia in cammino, una Misericordia che ogni giorno cerca il modo di fare un passo avanti, un piccolo passo in là, avanzando sulla terra di nessuno, dove regnavano l’indifferenza e la violenza.

Questa è stata la dinamica del buon Samaritano, che “praticò la misericordia” (cfr Lc 10,37): si commosse, si avvicinò all’uomo tramortito, bendò le sue ferite, lo portò alla locanda, si fermò quella notte e promise di tornare a pagare ciò che si sarebbe speso in più. Questa è la dinamica della Misericordia, che lega un piccolo gesto con un altro, e senza offendere nessuna fragilità, si estende un po’ di più nell’aiuto e nell’amore. Ciascuno di noi, guardando la propria vita con lo sguardo buono di Dio, può fare un esercizio con la memoria e scoprire come il Signore ha usato misericordia con noi, come è stato molto più misericordioso di quanto credevamo, e così incoraggiarci a chiedergli che faccia un piccolo passo in più, che si mostri molto più misericordioso in futuro. «Mostraci, Signore, la tua misericordia» (Sal 85,8). Questo modo paradossale di pregare un Dio sempre più misericordioso aiuta a rompere quegli schemi ristretti nei quali tante volte incaselliamo la sovrabbondanza del suo Cuore. Ci fa bene uscire dai nostri recinti, perché è proprio del Cuore di Dio traboccare di misericordia, straripare, spargendo la sua tenerezza, in modo tale che sempre ne avanzi, poiché il Signore preferisce che si perda qualcosa piuttosto che manchi una goccia, preferisce che tanti semi se li mangino gli uccelli piuttosto che alla semina manchi un solo seme, dal momento che tutti hanno la capacità di portare frutto abbondante, il 30, il 60, e fino al cento per uno.

Come sacerdoti, siamo testimoni e ministri della Misericordia sempre più grande del nostro Padre; abbiamo il dolce e confortante compito di incarnarla, come fece Gesù, che «passò beneficando e risanando» (At 10,38), in mille modi, perché giunga a tutti. Noi possiamo contribuire ad inculturarla, affinché ogni persona la riceva nella propria personale esperienza di vita e così la possa comprendere e praticare – creativamente – nel modo di essere proprio del suo popolo e della sua famiglia.

Oggi, in questo Giovedì Santo dell’Anno Giubilare della Misericordia, vorrei parlare di due ambiti nei quali il Signore eccede nella sua Misericordia. Dal momento che è Lui che ci dà l’esempio, non dobbiamo aver paura di eccedere anche noi: un ambito è quello dell’incontro; l’altro è quello del suo perdono che ci fa vergognare e ci dà dignità.

Il primo ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è quello dell’incontro. Egli si dà totalmente e in modo tale che, in ogni incontro, passa direttamente a celebrare una festa. Nella parabola del Padre Misericordioso rimaniamo sbalorditi di fronte a quell’uomo che corre, commosso, a gettarsi al collo di suo figlio; vedendo come lo abbraccia e lo bacia e si preoccupa di mettergli l’anello che lo fa sentire uguale, e i sandali propri di chi è figlio e non dipendente; e poi come mette tutti in movimento e ordina di organizzare una festa. Nel contemplare sempre meravigliati questa sovrabbondanza di gioia del Padre, al quale il ritorno del figlio permette di esprimere liberamente il suo amore, senza resistenze né distanze, noi non dobbiamo avere paura di esagerare nel nostro ringraziamento. Il giusto atteggiamento possiamo prenderlo da quel povero lebbroso che, vedendosi risanato, lascia i suoi nove compagni che vanno a compiere ciò che ha ordinato Gesù e torna ad inginocchiarsi ai piedi del Signore, glorificando e rendendo grazie e Dio a gran voce.

La misericordia restaura tutto e restituisce le persone alla loro dignità originaria. Per questo il ringraziamento effusivo è la risposta giusta: bisogna entrare subito alla festa, indossare l’abito, togliersi i rancori del figlio maggiore, rallegrarsi e festeggiare… Perché solo così, partecipando pienamente a quel clima di celebrazione, si può poi pensare bene, si può chiedere perdono e vedere più chiaramente come poter riparare il male commesso. Può farci bene domandarci: dopo essermi confessato, festeggio? O passo rapidamente ad un’altra cosa, come quando dopo essere andati dal medico, vediamo che le analisi non sono andate tanto male e le rimettiamo nella busta e passiamo a un’altra cosa. E quando faccio l’elemosina, dò tempo a chi la riceve di esprimere il suo ringraziamento, festeggio il suo sorriso e quelle benedizioni che ci danno i poveri, o proseguo in fretta con le mie cose dopo “aver lasciato cadere la moneta”?

L’altro ambito nel quale vediamo che Dio eccede in una Misericordia sempre più grande, è il perdono stesso. Non solo perdona debiti incalcolabili, come al servo che lo supplica e poi si dimostrerà meschino con il suo compagno, ma ci fa passare direttamente dalla vergogna più vergognosa alla dignità più alta senza passaggi intermedi. Il Signore lascia che la peccatrice perdonata gli lavi familiarmente i piedi con le sue lacrime. Appena Simon Pietro gli confessa il suo peccato e gli chiede di allontanarsi, Lui lo eleva alla dignità di pescatore di uomini. Noi, invece, tendiamo a separare i due atteggiamenti: quando ci vergogniamo del peccato, ci nascondiamo e andiamo con la testa bassa, come Adamo ed Eva, e quando siamo elevati a qualche dignità cerchiamo di coprire i peccati e ci piace farci vedere, quasi pavoneggiarci.

La nostra risposta al perdono sovrabbondante del Signore dovrebbe consistere nel mantenerci sempre in quella sana tensione tra una dignitosa vergogna e una dignità che sa vergognarsi: atteggiamento di chi per sé stesso cerca di umiliarsi e abbassarsi, ma è capace di accettare che il Signore lo innalzi per il bene della missione, senza compiacersene. Il modello che il Vangelo consacra, e che può servirci quando ci confessiamo, è quello di Pietro, che si lascia interrogare a lungo sul suo amore e, nello stesso tempo, rinnova la sua accettazione del ministero di pascere le pecore che il Signore gli affida.

Per entrare più in profondità in questa “dignità che sa vergognarsi”, che ci salva dal crederci di più o di meno di quello che siamo per grazia, ci può aiutare vedere come nel passo di Isaia che il Signore legge oggi nella sua sinagoga di Nazareth, il Profeta prosegue dicendo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio» (61,6). È il popolo povero, affamato, prigioniero di guerra, senza futuro, residuale e scartato, che il Signore trasforma in popolo sacerdotale.

Come sacerdoti, noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate. Sentiamo che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva – che beviamo solo a sorsi –, ma per un eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”. Ci sentiamo anche prigionieri, non circondati, come tanti popoli, da invalicabili mura di pietra o da recinzioni di acciaio, ma da una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click. Siamo oppressi, ma non da minacce e spintoni, come tanta povera gente, ma dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori.

E Gesù viene a riscattarci, a farci uscire, per trasformarci da poveri e ciechi, da prigionieri e oppressi in ministri di misericordia e consolazione. E ci dice, con le parole del profeta Ezechiele al popolo che si era prostituito e aveva tradito gravemente il suo Signore: «Io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza [...] Allora ricorderai la tua condotta e ne sarai confusa, quando riceverai le tue sorelle maggiori insieme a quelle più piccole, che io darò a te per figlie, ma non in forza della tua alleanza. Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto – oracolo del Signore Dio» (Ez 16,60-63).

In questo Anno Giubilare celebriamo, con tutta la gratitudine di cui è capace il nostro cuore, il nostro Padre, e lo preghiamo che “si ricordi sempre della sua Misericordia”; accogliamo, con dignità che sa vergognarsi, la Misericordia nella carne ferita del nostro Signore Gesù Cristo, e gli chiediamo che ci lavi da ogni peccato e ci liberi da ogni male; e con la grazia dello Spirito Santo ci impegniamo a comunicare la Misericordia di Dio a tutti gli uomini, praticando le opere che lo Spirito suscita in ciascuno per il bene comune di tutto il popolo fedele di Dio.
                                                                       Papa Francesco

sabato 19 marzo 2016

Il cammino verso la unità dei cristiani - Riflessione sulla Unitatis redintegratio

Il cammino verso la unità dei cristiani - Riflessione sulla Unitatis redintegratio

18 marzo 2016


Quinta Predica di Quaresima
1. Il cammino ecumenico dopo il Vaticano II
La moderna scienza ermeneutica ha reso familiare il principio di Gadamer della “storia degli effetti”(Wirkungsgeschichte). Secondo tale metodo, per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa . Questo principio risulta di grande utilità applicato all’interpretazione della Scrittura. Ci dice che non si può capire appieno l’Antico Testamento, se non alla luce del suo compimento nel Nuovo e non si può capire il Nuovo Testamento se non alla luce dei frutti che ha prodotto nella vita della Chiesa. Non basta perciò il solito studio storico-filologico delle “fonti”, cioè dell’influenze subite da un testo; occorre tener conto anche delle influenze da esso esercitate. È la regola che Gesú aveva formulato molto tempo prima, dicendo che ogni albero si conosce dai suoi frutti (cf. Lc 6, 44).
Fatte le debite proporzioni, questo principio – lo abbiamo visto nelle precedenti meditazioni – si applica anche ai testi del Vaticano II. Oggi vorrei mostrare come esso si applica in particolare al decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, che è il tema di questa meditazione. Cinquant’anni di cammino e di progressi nell’ecumenismo stanno a dimostrare le virtualità racchiuse in quel testo. Dopo aver richiamato le ragioni profonde che inducono i cristiani a ricercare l’unità tra di loro, e dopo aver preso atto del diffondersi tra i credenti delle diverse Chiese di un nuovo atteggiamento a questo riguardo, i Padri conciliari così esprimono l’intento del documento:
“Perciò questo sacro Concilio, considerando con gioia tutti questi fatti, dopo avere già esposta la dottrina sulla Chiesa, mosso dal desiderio di ristabilire l’unità fra tutti i discepoli di Cristo, intende ora proporre a tutti i cattolici gli aiuti, gli orientamenti, e i modi, con i quali possano essi stessi rispondere a questa vocazione e a questa grazia divina” .
Le realizzazioni, o i frutti, di questo documento sono stati di due specie. Sul piano dottrinale e istituzionale, è stato costituito il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani; sono stati avviati inoltre dialoghi bilaterali con quasi tutte le confessioni cristiane, con lo scopo di promuovere una migliore conoscenza reciproca, un confronto delle posizioni e il superamento dei pregiudizi.
Accanto a questo ecumenismo ufficiale e dottrinale, si è sviluppato fin dall’inizio un ecumenismo dell’incontro e della riconciliazione dei cuori.
In questo ambito spiccano alcuni incontri celebri che hanno segnato il cammino ecumenico in questi 50 anni: quello di Paolo VI con il Patriarca Atenagora, gli innumerevoli incontri di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI con i capi di diverse chiese cristiane, di papa Francesco con il patriarca Bartolomeo nel 2014, e, ultimo, quello con il Patriarca di Mosca Kirill a Cuba che ha aperto un orizzonte nuovo al cammino ecumenico.
A questo stesso ecumenismo spirituale, appartengono anche le tante iniziative in cui credenti di diverse Chiese si incontrano per pregare e proclamare insieme il Vangelo, senza intenti di proselitismo e nella piena fedeltà ognuno alla propria Chiesa. Ho avuto la grazia di partecipare a molti di questi incontri. Uno di essi mi è rimasto particolarmente vivo nella memoria perché fu come una profezia visiva di quello a cui dovrebbe portarci il movimento ecumenico.
Nel 2009 si tenne a Stoccolma una grande manifestazione di fede denominata “Jesus manifestation”, “Una manifestazione per Gesú”. Nel giorno finale, i credenti delle varie Chiese, ognuno da una strada diversa, muovevano in processione verso il centro della città. Anche il piccolo gruppo di cattolici, con in testa il vescovo locale, andavamo per la nostra via pregando. Giunti al centro, le file si rompevamo ed era un’unica folla che proclamava la signoria di Cristo al cospetto di una folla di 18 mila giovani e di passanti attoniti. Quella che intendeva essere una manifestazione “per” Gesú, divenne una potente manifestazione “di” Gesú. La sua presenza si poteva quasi toccare con mano in un paese non abituato a manifestazioni religiose di questo genere.
Anche questi sviluppi del documento sull’ecumenismo sono un frutto dello Spirito Santo e un segno della invocata nuova Pentecoste. Come fece il Risorto a convincere gli apostoli ad aprirsi ai gentili e ad accogliere anch’essi nella comunità cristiana? Condusse Pietro nella casa del centurione Cornelio, lo fece assistere alla venuta dello Spirito sui presenti, con le stesse manifestazioni che gli apostoli avevano sperimentato a Pentecoste: parlare in lingue, glorificare Dio ad alta voce. A Pietro non rimase che trarre la conclusione: “Se Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi…chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11, 17).
Il Signore risorto sta facendo la stessa cosa oggi. Invia il suo Spirito e i suoi carismi su credenti delle più diverse Chiese, anche quelle che credevamo le più distanti da noi, spesso con le identiche manifestazioni esterne. Come non vedere in ciò un segno che egli ci spinge ad accettarci e riconoscerci reciprocamente come fratelli, anche se tuttora in cammino verso una unità più piena sul piano visibile? Fu in ogni caso quello che convertì me all’amore per l’unità dei cristiani, abituato, come dai miei studi preconciliari, a vedere ortodossi e protestanti solo come gli “avversari” da confutare nelle nostre tesi di teologia.
2. A un anno dal V Centenario della riforma protestante (1517)
Nella Quaresima dell’anno scorso, ho cercato di mostrare i risultati a cui è giunto, a livello teologico, il dialogo ecumenico con l’oriente ortodosso. Al libretto che raccoglie tali meditazioni ho dato il titolo “Due polmoni, un unico respiro”, che dice da solo quello a cui tendiamo e che in gran parte è già realizzato . In questa occasione vorrei rivolgere l’attenzione ai rapporti con l’altro grande interlocutore del dialogo ecumenico che è il mondo protestante, senza entrare in questioni storiche e dottrinali, ma per mostrare come tutto ci spinge ad andare avanti nello sforzo di ricomporre l’unità dell’occidente cristiano.
Una circostanza rende questo sforzo particolarmente attuale. Il mondo cristiano si prepara a celebrare il quinto centenario della Riforma nel 2017. È vitale per tutta il futuro della Chiesa non sciupare questa occasione, rimanendo prigionieri del passato, o limitandosi a usare toni più irenici nello stabilire torti e ragioni d’ambo le parti. È il momento di fare, credo, un salto di qualità, come quando una barca arriva alla chiusa di un fiume o di un canale che le permettere di proseguire la navigazione a un livello superiore.
La situazione è profondamente cambiata in questi cinquecento anni, ma come, sempre, si stenta a prenderne atto. Le questioni che provocarono la separazione tra Chiesa di Roma e la Riforma nel secolo XVI furono soprattutto le indulgenze e il modo in cui avviene la giustificazione dell’empio. Ma, di nuovo, possiamo dire che questi siano i problemi con i quali sta o cade la fede dell’uomo d’oggi? In una conferenza tenuta al Centro “Pro unione” di Roma, il cardinale Walter Kasper faceva giustamente notare che mentre per Lutero il problema esistenziale numero uno era come superare il senso della colpa e ottenere un Dio benevolo, oggi il problema semmai è il contrario: come ridare all’uomo d’oggi il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto.
Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino. Quello che all’Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. È Cristo il cuore del messaggio, prima ancora che la grazia e la fede.
Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata “in virtù della redenzione realizzata da Cristo”, “per l’obbedienza di un solo uomo” (Rom 3, 24; 5, 19).
L’affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è presente nel testo ed era la cosa più urgente da mettere in luce al tempo di Lutero, quando era pacifico, almeno in Europa, che si trattava della fede in Cristo e della grazia di Cristo. Ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Abbiamo commesso l’errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l’Apostolo una affermazione di portata ben più vasta e universale. Oggi siamo chiamati a riscoprire e proclamare insieme il fondo del messaggio paolino.
Nella descrizione delle battaglie medievali c’è sempre un momento in cui, superati gli arcieri, la cavalleria e tutto il resto, la mischia si concentrava intorno al re. Lì si decideva l’esito finale della battaglia. Anche per noi la battaglia oggi è intorno al re… La persona di Gesù Cristo è la vera posta in gioco. Abbiamo bisogno di tornare, dal punto di vista dell’evangelizzazione, al tempo degli apostoli. C’è una analogia tra il nostro tempo e il loro. Essi avevano davanti un mondo pre-cristiano; in occidente, noi abbiamo davanti un mondo largamente post-cristiano.
Quando l’apostolo Paolo vuole riassumere in una frase l’essenza del messaggio cristiano non dice: “Noi vi annunciamo questa o quella dottrina”; dice: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1,23), e ancora: “Noi predichiamo Cristo Gesú Signore” (2 Cor 4,5). Questo è di nuovo il vero “articulus stantis et cadentis Ecclesiae”, l’articolo con il quale la Chiesa sta o cade.
Questo non significa ignorare tutto quella che la Riforma protestante ha prodotto di nuovo e di valido, sia nel campo della teologia che in quello della spiritualità, soprattutto con la riaffermazione del primato della Parola di Dio. Significa piuttosto permettere a tutta la Chiesa di beneficiare delle sue conquiste positive, una volta liberate da certi eccessi e irrigidimenti, dovuti al clima surriscaldato del momento, all’ingerenza della politica e alle polemiche successive.
Un passo significativo in questa direzione è stato la “dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” firmata il 31 Ottobre 1999 tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane” . Nella sua conclusione, essa dice:
“La comprensione della dottrina della giustificazione esposta in questa Dichiarazione mostra l’esistenza di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali di tale dottrina della giustificazione. Alla luce di detto consenso sono accettabili le differenze che sussistono per quanto riguarda il linguaggio, gli sviluppi teologici e le accentuazioni particolari che ha assunto la comprensione della giustificazione. […] Per questo motivo l’elaborazione luterana e l’elaborazione cattolica della fede nella giustificazione sono, nelle loro differenze, aperte l’una all’altra e tali da non invalidare di nuovo il consenso raggiunto su verità fondamentali” .
Io mi trovai a essere presente quando l’accordo fu proclamato in San Pietro durante un Vespro solenne presieduto da Giovanni Paolo II e dall’arcivescovo di Uppsala, Bertil Werkström. Mi colpì una osservazione che il papa fece nell’omelia. Esprimeva, se ricordo bene, questo pensiero: è venuto il tempo di smettere di fare di questa dottrina della giustificazione per fede un tema di lotte e di dispute tra teologi, e cercare invece di aiutare tutti i battezzati a fare, di questa verità, una esperienza personale e liberatoria. Da quel giorno, non ho smesso, ogni volta che ne ho avuto l’opportunità nella mia predicazione, di esortare i fratelli a fare questa esperienza.
La giustificazione mediante la fede in Cristo dovrebbe essere predicata da tutta la Chiesa e con maggior vigore che mai. Non più, però in opposizione alle “buone opere” che è una questione superata e risolta, ma in opposizione, semmai, alla pretesa del mondo secolarizzato di potersi salvare da solo, con la propria scienza, la tecnica o con tecniche spirituali di propria invenzione. Sono convinto che se fossero vivi oggigiorno questo sarebbe il modo con cui Lutero, Calvino e gli altri riformatori predicherebbero la giustificazione gratuita mediante la fede!
“Le società moderne – si legge in un libro che ha fatto epoca – sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà […]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza” .
I “sistemi di valore sorpassati” sono naturalmente, per l’autore, i sistemi religiosi. Jean-Paul Sartre arriva alla stessa conclusione partendo da un punto di vista filosofico. Egli fa dire a un suo personaggio: “Io stesso oggi mi accuso e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se Dio esiste l’uomo è nulla” . E a questo tipo di sfide lanciate dallo scientismo ateo e dal secolarismo che i cristiani di oggi devono rispondere con la dottrina che “l’uomo non è giustificato davanti a Dio dalle proprie opere, ma per grazia e per fede (cf. Gal 2, 16).
3. Oltre le formule
Sono persuaso che sul dialogo ecumenico con le Chiese protestanti pesa fortemente il ruolo frenante delle formule. Mi spiego. Le formulazioni dottrinali e dogmatiche, che al loro nascere erano frutto di processi vitali e rispecchiavano il cammino corale della comunità e la verità faticosamente raggiunta, con il passare del tempo tendono a irrigidirsi a diventare delle “parole d’ordine”, etichette indicanti un’appartenenza. La fede non termina più alla realtà della cosa, ma alla sua formulazione. Siamo agli antipodi di quello che dovrebbe essere l’ordine delle cose secondo la celebre affermazione di Tommaso d’Aquino: “Fides non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem”: la fede non termina nella sua formulazione, ma nella cosa in se .
È il fenomeno del formalismo in atto già nell’antichità, una volta terminata la fase creativa dei grandi dogmi . Solo di recente si è capito, per esempio, che le divisioni in seno all’Oriente cristiano, tra Chiese calcedonesi e cosiddette Chiese monofisite o nestoriane, erano basate, in molti casi, su delle formule e sul senso diverso dato, in esse, ai termini ousia e ipostasi, che non toccavano la sostanza della dottrina. Si è potuta ristabilire, così, la comunione tra e con diverse Chiese orientali.
Questo ostacolo è particolarmente visibile nei rapporti con le Chiese della Riforma. Fede e opere, Scrittura e tradizione: sono contrapposizioni comprensibili, e in parte giustificate, nel loro nascere, ma diventano ingannatrici se vengono ripetute e tenute in piedi, come se nulla fosse cambiato in cinquecento anni di vita.
Prendiamo la contrapposizione tra fede e opere. Essa ha un senso se per buone opere si intendono principalmente (come purtroppo avveniva al tempo di Lutero) indulgenze, pellegrinaggi, digiuni, elemosine, candele votive e via dicendo. Diventa fuorviante se per buone opere intendiamo le opere di carità e di misericordia. Gesú, nel Vangelo ci ammonisce che senza di esse non si entra nel regno dei cieli e lui sarà costretto a dire: “Via da me”. Non si è giustificati dunque per le buone opere, ma non ci si salva senza le buone opere. La giustificazione è senza condizioni, ma non è senza conseguenze. Questo lo crediamo tutti, cattolici e protestanti e lo diceva già il concilio di Trento.
Lo stesso si deve dire della contrapposizione tra Scrittura e tradizione. Essa viene a galla, appena si tocca il problema della rivelazione, come se i protestanti avessero solo la Scrittura e i cattolici Scrittura e Tradizione. Ma nella realtà nessuna Chiesa è senza una propria tradizione. Che cosa spiega l’esistenza di tante denominazioni diverse in seno al protestantesimo, se non il loro diverso modo di interpretare la Scrittura? E che cos’è la Tradizione, nel suo contenuto più vero, se non, appunto, la Scrittura letta nella Chiesa e dalla Chiesa?
Neppure la formula luterana “Simul iustus et peccator”, “giusto e peccatore allo stesso tempo”, è uno scoglio insormontabile alla comunione. Fa parte della tradizione cattolica, fin dal tempo dei Padri, la definizione della Chiesa come “casta meretrice” (casta meretrix) e come “santa e sempre da riformare” . Ciò che si dice della Chiesa nel suo insieme, come corpo di Cristo, non si dovrebbe applicare anche a ciascuno dei suoi membri?
Quello che può essere soggetto a diversa e complementare spiegazione è il modo in cui è intesa questa compresenza di santità e di peccato nell’uomo redento. Nell’ Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione c’è una spiegazione della formula “simul iustus et peccator” che non è in divergenza con la dottrina cattolica. Si afferma che la giustificazione opera un rinnovamento reale nella vita del battezzato, anche se questo non diviene mai un possesso acquisito, su cui l’uomo possa appoggiarsi davanti a Dio, ma rimane sempre dipendente dall’azione dello Spirito Santo.
Nel 1974 ci fu una notizia che stupì e divertì il mondo intero. Un soldato giapponese, inviato durante l’ultima guerra mondiale in un’isola delle Filippine per infiltrarsi tra il nemico e raccogliere informazioni, aveva vissuto trent’anni nascondendosi qua e là nella giungla e nutrendosi di radici, frutti e qualche preda, convinto che la guerra fosse ancora in atto e lui ancora in missione. Quando lo rintracciarono, fecero fatica a convincerlo che la guerra era finita e che poteva tornare in patria. Io credo che succeda qualcosa di simile tra i cristiani. Ci sono cristiani che bisogna convincere, in entrambi gli schieramenti, che la guerra è finita, le guerre di religione tra cattolici e protestanti sono finite. Abbiamo ben altro da fare che farci guerra l’un l’altro! Il mondo ha dimenticato, o non ha mai conosciuto, il suo Salvatore, colui che è la luce del mondo, la via, la verità e la vita, e noi perdiamo tempo a polemizzare tra di noi?
4. Unità nella carità
Non basta, però, questo motivo pratico per fare l’unità dei cristiani. Non basta trovarsi uniti sul fronte dell’evangelizzazione e dell’azione caritativa. Questa è una via che il movimento ecumenico sperimentò ai suoi inizi con il movimento “Vita e azione” (“Life and Work”), ma che si rivelò presto insufficiente. Se l’unità dei discepoli deve essere un riflesso dell’unità tra il Padre e il Figlio, essa deve essere anzitutto una unità d’amore, perché tale è l’unità che regna nella Trinità. Le tre divine persone non sono unite per il fatto che “operano congiuntamente” la creazione e tutte le altre opere ad extra; lo sono nel loro stesso essere. La Scrittura ci esorta a “fare la verità nella carità – veritatem facientes in caritate”(Ef 4, 15). E sant’Agostino afferma che “non si entra nella verità se non attraverso la carità – non intratur in veritatem nisi per caritatem» .
La cosa straordinaria, circa questa via all’unità basata sull’amore, è che essa è già ora spalancata davanti a noi. Non possiamo “bruciare le tappe” circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza nelle sedi appropriate. Possiamo invece bruciare le tappe nella carità, ed essere pienamente uniti, fin d’ora. Il vero e sicuro segno della venuta dello Spirito non è, scrive ancora sant’Agostino, il parlare in lingue, ma è l’amore per l’unità: “Sappiate che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una sincera carità” .
Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
“La carità è paziente…
La carità non è invidiosa…
Non cerca solo il suo interesse [o solo l’interesse della propria Chiesa].
Non tiene conto del male ricevuto [semmai, del male arrecato agli altri!].
Non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità [non gode delle difficoltà delle altre Chiese, ma si rallegra dei loro successi spirituali].
Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”(l Cor 13, 4 ss).
“Amarsi” è stato detto “non significa guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Anche tra cristiani, amarsi significa guardare insieme nella stessa direzione che è Cristo. “Egli è la nostra pace” (Ef 2, 14). Se ci convertiremo a Cristo e andremo insieme verso di lui, noi cristiani ci avvicineremo anche tra di noi, fino a essere, come lui ha chiesto, “una cosa sola con lui e con il Padre” (cf. Gv 17, 21). Succede come per i raggi di una ruota. Essi partono da punti distanti della circonferenza, ma a mano a mano che si avvicinano al centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo. Succede come quel giorno a Stoccolma…
Ci apprestiamo a celebrare la Pasqua. Sulla croce Gesù “ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia […] Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 14.18). Non manchiamo di farlo, per la gioia del Cuore di Cristo e per il bene del mondo.
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: Buona Settimana Santa e Buona Pasqua!

                                                                                                                                       Padre Raniero Cantalamessa



1.Cf H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960.
2.UR, 1.
3.Due polmoni, un unico respiro. Oriente e Occidente di fronte ai grandi misteri della fede. Libreria Editrice Vaticana 2015.
4.Il testo della Dichiarazione congiunta si può trovare in Enchiridion Vaticanum (EV) 17,744-817.
5.Ib, nr. 40.
6.J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970, 136s.
7.J.-P. SARTRE, Il diavolo e il buon Dio, X, 4, Gallimard, Parigi 1951, p. 267 s.
8.S.Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae , q. 1,a.2,ad 2.
9.G. L. Prestige, God in Patristic Thought, London 1952, chap. XIII; ed. Italiana Dio nel pensiero dei Padri, Bologna, Il Mulino, 1969, pp. 273 ss. (Il trionfo del formalismo).
10.Cf. H.U. von Balthasar, “Casta meretrix, in Sponsa Chnristi, Morcelliana, Brescia, 1969.
11.Agostino, Contra Faustum, 32, 18 (CCL 321, p. 779).
12.Agostino, Discorsi, 269, 3-4 (PL 38, 1236 s).

sabato 12 marzo 2016

Matrimonio e famiglia nella Gaudium et spes e nell'oggi

Matrimonio e famiglia nella Gaudium et spes e nell'oggi
11 marzo 2016
Quarta predica di Quaresima
Dedico questa meditazione a una riflessione spirituale sulla Gaudium et spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo. Dei vari problemi della società trattati in questo testo conciliare –cultura, economia, giustizia sociale, pace –, il più attuale e problematico è quello relativo a matrimonio e famiglia. Ad esso la Chiesa ha dedicato gli ultimi due sinodi dei vescovi. La maggioranza di noi qui presenti non vive direttamente questo stato di vita, ma tutti dobbiamo conoscerne i problemi, per capire e aiutare la stragrande maggioranza del popolo di Dio che vive nel matrimonio, oggi specialmente che esso è al centro di attacchi e minacce da tutte le parti.
La Gaudium et spes tratta a lungo della famiglia all’inizio della Seconda Parte (nrr. 46-53). Non è il caso di citare le sue affermazioni, perché non è che la dottrina cattolica tradizionale che tutti conosciamo, a parte il rilievo nuovo dato al mutuo amore tra i coniugi, riconosciuto ormai apertamente come un bene, anch’esso primario, del matrimonio, accanto alla procreazione.
A proposito di matrimonio e famiglia, la Gaudium et spes, secondo il suo ben noto procedimento, mette in luce anzitutto le conquiste positive del mondo moderno (“le gioie e le speranze”), e in secondo luogo i problemi e i pericoli (“le tristezze e le angosce”). Io mi propongo di seguire lo stesso metodo, tenendo conto però dei cambiamenti drammatici avvenuti, in questo campo, nel mezzo secolo trascorso da allora. Richiamerò velocemente il progetto di Dio su matrimonio e famiglia, perché è sempre da esso che noi credenti dobbiamo partire, per poi vedere cosa la rivelazione biblica può apportare alla soluzione dei problemi attuali. Mi astengo volutamente dal toccare alcuni problemi particolari discussi nel sinodo dei vescovi, sui quali solo il papa ha ormai il diritto di dire ancora una parola.
1. Matrimonio e famiglia nel progetto divino e nel Vangelo di Cristo
Il libro della Genesi ha due racconti distinti della creazione della prima coppia umana, risalenti a due tradizioni diverse: quella jahwista (X sec a.C.) e quella più recente (VI sec. a.C.) detta “sacerdotale”. Nella tradizione sacerdotale (Gen 1, 26-28) l’uomo e la donna sono creati simultaneamente, non uno dall’altro; si pone in rapporto l’essere maschio e femmina con l’essere a immagine di Dio: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Il fine primario dell’unione tra l’uomo e la donna è visto nell’essere fecondi e riempire la terra.
Nella tradizione jahwista che è la più antica (Gen 2, 18-25), la donna è tratta dall’uomo; la creazione dei due sessi è vista come rimedio alla solitudine (“Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”); più che il fattore procreativo, si accentua il fattore unitivo (“l’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”); ognuno è libero di fronte alla propria sessualità e a quella dell’altro: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.
La spiegazione più convincente del perché di questa “invenzione” divina della distinzione dei sessi l’ho trovata non in un esegeta, ma in un poeta, Paul Claudel:

“L’uomo è un essere orgoglioso non c’era altro modo di fargli comprendere il prossimo che quello di farglielo entrare nella carne; non c’era altro mezzo per fargli capire la dipendenza, la necessità e il bisogno se non mediante la legge su di lui di questo essere differente [la donna], dovuta al semplice fatto che esso esiste” .
Aprirsi all’altro sesso è il primo passo per aprirsi all’altro che è il prossimo, fino all’Altro con la lettera maiuscola che è Dio. Il matrimonio nasce nel segno dell’umiltà; è riconoscimento di dipendenza e quindi della propria condizione di creatura. Innamorarsi di una donna o di un uomo è fare il più radicale atto di umiltà. È un farsi mendicante e dire all’altro: “Io non basto a me stesso, ho bisogno del tuo essere”. Se, come pensava Schleiermacher, l’essenza della religione consiste nel “sentimento di dipendenza” (Abhaengigheitsgefühl) di fronte a Dio, allora, possiamo dire che la sessualità umana è la prima scuola di religione.
Fin qui il progetto di Dio. Non si spiega però il seguito della Bibbia se, insieme con il racconto della creazione, non si tiene conto anche di quello della caduta, soprattutto di quello che viene detto alla donna: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gen 3,16). Il predominio dell’uomo sulla donna fa parte del peccato dell’uomo, non del progetto di Dio; con quelle parole, Dio lo preannuncia, non lo approva.
La Bibbia è un libro divino – umano non solo perché ha per autori Dio e l’uomo, ma anche perché descrive, frammiste insieme, la fedeltà di Dio e l’infedeltà dell’uomo. Questo appare particolarmente evidente quando si confronta il progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia con la sua attuazione pratica nella storia del popolo eletto. Per rimanere nel libro della Genesi, già il figlio di Caino Lamech viola la legge della monogamia prendendo due mogli. Noè con la sua famiglia appare un’eccezione in mezzo alla generale corruzione del suo tempo. Gli stessi patriarchi Abramo e Giacobbe hanno figli da più donne. Mosè sancisce la pratica del divorzio; David e Salomone mantengono un vero harem di donne.
Più che nelle singole trasgressioni pratiche, il distacco dall’ideale iniziale è visibile nella concezione di fondo che si ha del matrimonio in Israele. L’oscuramento principale riguarda due punti cardini. Il primo è che il matrimonio, da fine, diventa mezzo. L’Antico Testamento, nel suo insieme, considera il matrimonio come una struttura d’autorità di tipo patriarcale, destinata principalmente alla perpetuazione del clan. In questo senso vanno comprese le istituzioni del levirato (Dt 25, 5-10), del concubinaggio (Gen 16) e della poligamia provvisoria. L’ideale di una comunione di vita tra l’uomo e la donna, fondata su un rapporto personale e reciproco, non è dimenticata, ma passa in secondo ordine rispetto al bene della prole. Il secondo grave oscuramento riguarda la condizione della donna: da compagna dell’uomo, dotata di pari dignità, essa appare sempre più subordinata all’uomo e in funzione dell’uomo.
Un ruolo importante, nel mantenere vivo il progetto iniziale di Dio sul matrimonio, lo svolsero i profeti, in particolare Osea, Isaia, Geremia e il Cantico dei cantici. Assumendo l’unione dell’uomo e della donna come simbolo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, di riflesso, essi rimettevano in primo piano i valori dell’amore mutuo, della fedeltà e dell’indissolubilità che caratterizzano l’atteggiamento di Dio verso Israele.
Gesú, venuto a “ricapitolare” la storia umana, attua questa ricapitolazione anche a proposito del matrimonio.
“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo? Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina (Gen 1, 27) e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? (Gen 2, 24). Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,3-6).
Gli avversari si muovono nell’ambito ristretto della casistica di scuola (se è lecito ripudiare la moglie per qualsiasi motivo, o se occorre un motivo specifico e serio), Gesú risponde riprendendo il problema alla radice, dall’inizio. Nella sua citazione, Gesú si riferisce a entrambi i racconti dell’istituzione del matrimonio, prende elementi dall’uno e dall’altro, ma di essi mette in luce, come si vede, soprattutto l’aspetto di comunione delle persone.
Quello che segue nel testo, sul problema del divorzio, va anch’esso in questa direzione; riafferma infatti la fedeltà e indissolubilità del vincolo matrimoniale al di sopra del bene stesso della prole, con il quale si erano giustificati in passato poligamia, levirato e divorzio:
“Gli obiettarono: Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via? Rispose loro Gesù: Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio” (Mt 19, 7-9).
Il testo parallelo di Marco mostra come, anche in caso di divorzio, uomo e donna si collocano, secondo Gesú, su un piano di assoluta parità: ”Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11-12).
Con le parole: “Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”, Gesú afferma che c’è un intervento diretto di Dio in ogni unione matrimoniale. L’elevazione del matrimonio a “sacramento”, cioè a segno di un azione di Dio, non riposa dunque soltanto sul debole argomento della presenza di Gesú alle nozze di Cana e sul testo di Efesini che parla del matrimonio come di un riflesso dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5, 32); comincia, implicitamente, con il Gesú terreno e fa parte anch’essa del suo riportare le cose all’inizio. Giovanni Paolo II definisce il matrimonio “il sacramento più antico” .
2. Cosa l’insegnamento biblico dice a noi oggi
Questa, per sommi capi, la dottrina della Bibbia, ma non possiamo fermarci ad essa. “La Scrittura, diceva san Gregorio Magno, cresce con chi la legge” (cum legentibus crescit) ; rivela implicazioni nuove a mano a mano che le vengono poste domande nuove. E oggi di domande, o provocazioni, nuove su matrimonio e famiglia ce ne sono tante.
Ci troviamo di fronte a una contestazione apparentemente globale del progetto biblico su sessualità, matrimonio e famiglia. Come comportarsi di fronte a questo inquietante fenomeno? Il concilio ha inaugurato un metodo nuovo che è di dialogo, non di scontro con il mondo; un metodo che non esclude neppure l’autocritica. Dobbiamo, credo, applicare questo metodo anche nella discussione dei problemi del matrimonio e della famiglia. Applicare questo metodo di dialogo significa cercare di vedere se al fondo anche delle contestazioni più radicali non c’è una istanza positiva da accogliere.
La critica al modello tradizionale di matrimonio e di famiglia che ha portato alle odierne, inaccettabili, proposte del decostruzionismo, è iniziata con l’illuminismo e il romanticismo. Con intenti diversi, questi due movimenti si sono espressi contro il matrimonio tradizionale, in quanto visto esclusivamente nei suoi “fini” oggettivi: la prole, la società, la Chiesa, e troppo poco in se stesso, nel suo valore soggettivo e interpersonale. Tutto si richiedeva ai futuri sposi eccetto che si amassero e si scegliessero liberamente tra di loro. Anche oggi, in tante parti del mondo ci sono sposi che si conoscono e si vedono per la prima volta il giorno delle nozze. A tale modello, l’Illuminismo oppose il matrimonio come patto tra i coniugi e il Romanticismo il matrimonio come comunione d’amore tra gli sposi.
Ma questa critica va nel senso originario della Bibbia, non contro di essa! Il concilio Vaticano II ha recepito questa istanza quando, come dicevo, ha riconosciuto come bene ugualmente primario del matrimonio il mutuo amore e aiuto tra i coniugi. San Giovanni Paolo II, nella linea della Gaudium et spes, in una sua catechesi del Mercoledì, diceva:
”Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità,…è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e, mediante questo dono, attua il senso stesso del suo essere ed esistere” .
Nella sua enciclica “Deus caritas est”, il papa Benedetto XVI è andato oltre, scrivendo cose profonde e nuove a proposito dell’eros nel matrimonio e negli stessi rapporti tra Dio e l’uomo. “Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi non trova paralleli –scriveva – nella letteratura, al di fuori di essa” . Uno dei torti più grandi che facciamo a Dio è di aver finito per fare di tutto ciò che riguarda l’amore e la sessualità un ambito saturo di malizia, dove Dio non deve entrare ed è di troppo. Come se satana, e non Dio, fosse il creatore dei sessi e lo specialista dell’amore.
Noi credenti – e anche tanti non credenti – siamo lontani dall’accettare le conseguenze che alcuni traggono oggi da queste premesse: per esempio che basti qualsiasi tipo di eros a costituire un matrimonio, compreso quello tra persone dello stesso sesso, ma questo rifiuto acquista un’altra forza e credibilità se unito al riconoscimento della bontà di fondo dell’istanza, e anche a una sana autocritica.
Non possiamo infatti tacere il contributo che i cristiani avevano dato al formarsi di quella visione puramente oggettivista del matrimonio contro la quale la cultura moderna occidentale si è scagliata con veemenza. L’autorità di Agostino, rinforzata su questo punto da Tommaso d’Aquino, aveva finito per gettare una luce negativa sull’unione carnale dei coniugi, considerata il tramite di trasmissione del peccato originale e non priva, essa stessa, di peccato “almeno veniale”. Secondo il dottore di Ippona, i coniugi dovevano venire all’atto coniugale “con dispiacere” (cum dolore) e solo perché non c’era altro modo di dare cittadini allo stato e membri alla Chiesa .
Un’altra istanza moderna che possiamo fare nostra è quella della pari dignità della donna nel matrimonio. Essa, abbiamo visto, è nel cuore stesso del progetto originario di Dio e del pensiero di Cristo, ma è stata spesso disattesa lungo i secoli. La parola di Dio a Eva: “Verso l’uomo sarà la tua brama ed egli ti dominerà”, ha avuto un tragico avveramento nella storia.
Nei rappresentanti della cosiddetta “Gender revolution”, rivoluzione dei generi, questa istanza ha portato a proposte folli, come quella di abolire la distinzione dei sessi e sostituirla con la più elastica e soggettiva distinzione dei “generi” (maschile, femminile, variabile), o quella di liberare la donna dalla “schiavitù della maternità” provvedendo in altri modi, inventati dall’uomo, alla nascita dei figli. In questi ultimi mesi è un rincorrersi di notizie di uomini che fra poco potranno diventare incinti e dare alla luce un figlio. “Adamo da alla luce Eva”, si scrive sorridendo, mentre ci si sarebbe da piangere. Gli antichi avrebbero definito tutto ciò con un termine: Hybris, arroganza dell’uomo nei confronti di Dio.
Proprio la scelta del dialogo e dell’autocritica ci da il diritto di denunciare questi progetti come “disumani”, contrari, cioè, non solo alla volontà di Dio, ma anche al bene dell’umanità. Tradotti in pratica su larga scala, essi porterebbero a guasti umani e sociali imprevedibili. L’unica nostra speranza è che il buon senso della gente, unito al “desiderio” naturale dell’altro sesso e all’istinto di maternità e di paternità che Dio ha inscritto nella natura umana, resistano a questi tentativi di sostituirsi a Dio, dettati più da tardivi sensi di colpa dell’uomo, che da genuino rispetto e amore per la donna.
3. Un ideale da riscoprire
Non meno importante del compito di difendere l’ideale biblico del matrimonio e della famiglia è il compito di riscoprirlo e viverlo in pienezza da parte dei cristiani, in modo da riproporlo al mondo con i fatti, più che con le parole. I primi cristiani, con i loro costumi, cambiarono le leggi dello stato sulla famiglia; noi non possiamo pensare di poter fare il contrario, e cioè cambiare i costumi della gente con le leggi dello stato, anche se come cittadini abbiamo il dovere di contribuire a che lo stato faccia leggi giuste.
Dopo Cristo, noi leggiamo giustamente il racconto della creazione dell’uomo e della donna alla luce della rivelazione della Trinità. In questa luce, la frase: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” rivela finalmente il suo significato rimasto enigmatico e incerto prima di Cristo. Che rapporto ci può essere tra l’essere “a immagine di Dio” e l’essere “maschio e femmina”? Il Dio biblico non ha connotati sessuali, non è né maschio né femmina.
La somiglianza consiste in questo. Dio è amore e l’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Non c’è amore che non sia amore di qualcuno; dove non c’è che un solo soggetto, non ci può essere amore, ma solo egoismo o narcisismo. Là dove Dio è concepito come Legge o come Potenza assoluta non c’è bisogno di una pluralità di persone (il potere si può esercitare anche da soli!). Il Dio rivelato da Gesú Cristo, essendo amore, è unico e solo, ma non è solitario; è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone.
Due persone che si amano – e quello dell’uomo e la donna nel matrimonio ne è il caso più forte – riproducono qualcosa di ciò che avviene nella Trinità. Lì due persone –il Padre e il Figlio – amandosi, producono (“spirano”) lo Spirito che è l’amore che li fonde. Qualcuno ha definito lo Spirito Santo il “Noi” divino, cioè non la “terza persona della Trinità”, ma la prima persona plurale . Proprio in questo, la coppia umana è immagine di Dio. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Nella coppia si riconciliano tra loro unità e diversità.
In questa luce si scopre il senso profondo del messaggio dei profeti circa il matrimonio umano: che cioè esso è simbolo e riflesso di un altro amore, quello di Dio per il suo popolo. Questo non significava sovraccaricare di un significato mistico una realtà puramente mondana. Non è fare solo del simbolismo; è piuttosto rivelare il vero volto e lo scopo ultimo della creazione dell’uomo maschio e femmina.
Qual è la causa della incompiutezza e dell’inappagamento che lascia l’unione sessuale, dentro e fuori del matrimonio? Perché questo slancio ricade sempre su se stesso e perché questa promessa di infinito e di eterno rimane sempre delusa? A questa frustrazione si cerca un rimedio che però non fa che accrescerla. Anziché cambiare la qualità dell’atto, se ne aumenta la quantità, passando da un partner all’altro. Si arriva così allo scempio del dono di Dio della sessualità, in atto nella cultura e nella società di oggi.
Vogliamo una buona volta, come cristiani, cercare una spiegazione a questa devastante disfunzione? La spiegazione è che l’unione sessuale non è vissuta nel modo e con l’intenzione intesa da Dio. Questo scopo era che, attraverso questa estasi e fusione d’amore, l’uomo e la donna si elevassero al desiderio e avessero una certa pregustazione dell’amore infinito; si ricordassero da dove venivano e dove erano diretti.
Il peccato, a cominciare da quello dell’Adamo ed Eva biblici, ha attraversato questo progetto; ha “profanato” quel gesto, cioè lo ha spogliato della sua valenza religiosa. Ne ha fatto un gesto fine a se stesso, concluso in se stesso, e perciò “insoddisfacente”. Il simbolo è stato staccato dalla realtà simboleggiata, privato del suo dinamismo intrinseco e quindi mutilato. Mai come in questo caso si sperimenta la verità del detto di Agostino: “Tu ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore è insoddisfatto finché non riposa in te”. Noi infatti non siamo stati creati per vivere in un eterno rapporto di coppia, ma per vivere in un eterno rapporto con Dio, con l’Assoluto.
Lo scopre perfino il Faust di Goethe, al termine del suo lungo vagare; ripensando al suo amore per Margherita, al termine del poema egli esclama: “Tutto ciò che passa è solo una parabola. Solo qui [in cielo] l’irraggiungibile diventa realtà” .
Nella testimonianza di alcune coppie che hanno fatto l’esperienza rinnovatrice dello Spirito Santo e vivono la vita cristiana carismaticamente si ritrova qualcosa del significato originale dell’atto coniugale. Non c’è da stupirsi che sia così. Il matrimonio è il sacramento del dono reciproco che gli sposi fanno di se stessi l’uno all’altro, e lo Spirito Santo è, nella Trinità, il “dono”, o meglio il “domarsi” reciproco del Padre e del Figlio, non un atto passeggero, ma uno stato permanente. Dove arriva lo Spirito Santo, nasce, o rinasce, la capacità di farsi dono. È così che opera la “grazia di stato” nel matrimonio.
4. Sposati e consacrati nella Chiesa
Anche se noi consacrati non viviamo la realtà del matrimonio, ho detto all’inizio, dobbiamo conoscerla per aiutare coloro che vivono in essa. Aggiungo ora un ulteriore motivo: abbiamo bisogno di conoscerla per essere, anche noi, aiutati da essi! Parlando di matrimonio e verginità l’Apostolo dice: “Ciascuno ha il proprio dono (chárisma) da Dio, chi in un modo chi in un altro” (1 Cor 7, 7); cioè: lo sposato ha il suo carisma e chi non si sposa “per il Signore” ha il suo carisma.
Il carisma — dice lo stesso Apostolo — è “una manifestazione particolare dello Spirito, per l’utilità comune” (1 Cor 12, 7). Applicato al rapporto tra sposati e consacrati nella Chiesa, questo significa che il celibato e la verginità sono anche per gli sposati e che il matrimonio è anche per i consacrati, cioè a loro vantaggio. Tale è l’intrinseca natura del carisma, apparentemente contraddittoria: qualcosa di “particolare” (“una manifestazione particolare dello Spirito”) che però serve a tutti (“per l’utilità comune”).
Nella comunità cristiana consacrati e sposati possono “edificarsi” a vicenda. Gli sposati sono richiamati, dai consacrati, al primato di Dio e di ciò che non passa; sono introdotti all’amore per la parola di Dio che essi possono meglio approfondire e “spezzare” ai laici. Ma anche i consacrati imparano qualcosa dagli sposati. Imparano la generosità, la dimenticanza di sé, il servizio alla vita e, spesso, una certa “umanità” che viene dal duro contatto con le realtà dell’esistenza.
Ne parlo per esperienza. Io appartengo a un ordine religioso dove, fino a qualche decennio fa, ci si alzava di notte per recitare l’ufficio del “Mattutino”, che durava circa un’ora. Poi ci fu la grande svolta nella vita religiosa, a seguito del Concilio. Sembrò che il ritmo della vita moderna – lo studio per i giovani e il ministero apostolico per i sacerdoti – non consentissero più quell’alzata notturna che interrompeva il sonno, e a poco a poco essa fu abbandonata, a parte qualche luogo di formazione.
Quando, più tardi, il Signore mi ha fatto conoscere da vicino, nel mio ministero, diverse giovani famiglie, ho scoperto una cosa che mi ha salutarmente scosso. Quei giovani papà e mamme dovevano alzarsi non una, ma due, tre o anche più volte per notte, per dare da mangiare, somministrare la medicina, cullare il bambino se piangeva, vegliarlo se aveva la febbre. E al mattino uno dei due, o tutti e due, alla stessa ora, di corsa al lavoro, dopo aver portato il bambino o la bambina dai nonni o all’asilo. C’era un cartellino da timbrare e questo sia con il buono che con il cattivo tempo, sia con la buona che con la cattiva salute.
Allora mi sono detto: se non corriamo ai ripari, siamo in un grave pericolo! Il nostro genere di vita, se non è sorretto da autentica osservanza della Regola e da un certo rigore di orario e di abitudini, rischia di diventare una vita all’acqua di rose e di portarci alla durezza del cuore. Quello che dei buoni genitori sono capaci di fare per i loro figli carnali; il grado di dimenticanza di sé a cui sono capaci di giungere per provvedere alla loro salute, ai loro studi e alla loro felicità, deve essere la misura di ciò che dovremmo fare noi per i figli o i fratelli spirituali. Ci è di esempio in ciò proprio l’apostolo Paolo che diceva di volere “prodigarsi, anzi consumarsi”, per i suoi figli di Corinto (cf 2 Cor 12, 15).
Che lo Spirito Santo, datore dei carismi, aiuti tutti noi, sposati e consacrati, a mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo Pietro:
“Ciascuno viva secondo il dono ricevuto, mettendolo a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio […], perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4, 10-11).
                                                                                                                                                             Padre Raniero Cantalamessa
1.P. Claudel, Le soulier de satin, a.III. sc.8 (éd. La Pléiade, II, Parigi 1956, p. 804).
2.Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1985, p. 365.
3.Gregorio Magno, Moralia in Job, 20, 1, 1.
4.Giovanni Paolo II, Discorso all’udienza del 16 gennaio 1980 (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Libreria Editrice Vaticana 1980, p. 148).
5.Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 11.
6.Cf. S. Agostino, Discorsi, 51, 25 (PL 38, 348).
7.Cf. Cf. H. Mühlen , Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963.
8.W. Goethe, Faust, finale, parte seconda: „Alles Vergängliche / Ist nur ein Gleichnis; /Das Unzulängliche,/Hier wird’s Ereignis“.