giovedì 15 dicembre 2016

Lo Spirito Santo e il carisma del discernimento

seconda predica di Avvento 2016
di Padre Raniero Cantalamessa
9 dic 16


Continuiamo le nostre riflessioni sull’opera dello Spirito Santo nella vita della Chiesa e del cristiano. San Paolo menziona un carisma particolare dello Spirito chiamato ”discernimento degli spiriti” (1 Cor 12, 10). All’origine, questa espressione ha un senso ben preciso: indica il dono che permette di distinguere, tra le parole ispirate o profetiche pronunciate durante un’assemblea, quelle che vengono dallo Spirito di Cristo da quelle che provengono da altri spiriti e cioè o dallo spirito dell’uomo, o dallo spirito demoniaco, o dallo spirito del mondo.
Anche per l’evangelista Giovanni questo è il senso fondamentale. Il discernimento consiste nel “mettere alla prova le ispirazioni per saggiare se provengono veramente da Dio” (1 Gv 4,1-6). Per Paolo il criterio fondamentale di discernimento è la confessione di Cristo come “Signore” (1 Cor 12, 3); per Giovanni è la confessione che Gesù “è venuto nella carne”, cioè l’incarnazione. Già con lui il discernimento comincia ad essere usato in funzione teologica, come criterio per discernere le vere dalle false dottrine, l’ortodossia dall’eresia, ciò che diventerà centrale in seguito.
1. Il discernimento nella vita ecclesiale
Esistono due campi in cui si deve esercitare questo dono del discernimento della voce dello Spirito: quello ecclesiale e quello personale. Nel campo ecclesiale, il discernimento degli spiriti è esercitato in modo autorevole dal magistero, che deve però tener conto, tra gli altri criteri, anche del “senso dei fedeli”, il “sensus fidelium”.
Vorrei soffermarmi su un punto in particolare che può essere di aiuto nella discussione in atto nella Chiesa su alcuni problemi particolari. Si tratta del discernimento dei segni dei tempi. Il concilio ha dichiarato:
“È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” .
E’ chiaro che se la Chiesa deve scrutare i segni dei tempi alla luce del Vangelo, non è per applicare ai “tempi”, cioè alle situazioni e ai problemi nuovi che emergono nella società, i rimedi e le regole di sempre, bensì per dare ad essi risposte nuove, “adatte ad ogni generazione”, come dice il testo appena citato del concilio. La difficoltà che si incontra su questo cammino – e che va presa in tutta la sua serietà – è la paura di compromettere l’autorità del magistero, ammettendo dei cambiamenti nei suoi pronunciamenti.
C’è una considerazione che può aiutare, credo, a superare, in spirito di comunione, questa difficoltà. L’infallibilità che la Chiesa e il Papa rivendicano per sé, non è certamente di un grado superiore a quella che viene attribuita alla stessa Scrittura rivelata. Ora l’inerranza biblica assicura che lo Scrittore sacro esprime la verità nel modo e nel grado in cui essa poteva essere espressa nel momento in cui scrive. Vediamo che molte verità si formano lentamente e progressivamente, come quella dell’aldilà e della vita eterna. Anche nell’ambito morale, molti usi e leggi anteriori vengono, in seguito, abbandonate per fare posto a leggi e criteri più rispondenti allo spirito dell’Alleanza. Un esempio tra tutti: nell’Esodo, si afferma che Dio punisce le colpe dei padri nei figli (cf. Es 34, 7), ma Geremia ed Ezechiele diranno il contrario e cioè che Dio non punisce le colpe dei padri nei figli, ma che ognuno dovrà rispondere delle proprie azioni (cf. Ger 31, 29-30; Ez 18, 1 ss.).
Nell’Antico Testamento il criterio in base al quale si superano delle prescrizioni anteriori è quello di una migliore comprensione dello spirito dell’Alleanza e della Torah; nella Chiesa il criterio è quello di una continua rilettura del Vangelo alla luce delle domande nuove ad esso poste. “Scriptura cum legentibus crescit”, diceva san Gregorio Magno: la Scrittura cresce con coloro che la leggono .
Ora noi sappiamo che la regola costante dell’agire di Gesù nel Vangelo, in fatto di morale, si riassume in poche parole: “No al peccato, sì al peccatore”. Nessuno è più severo di lui nel condannare la ricchezza iniqua, ma si autoinvita a casa di Zaccheo e con il suo semplice andargli incontro lo cambia. Condanna l’adulterio, perfino quello del cuore, ma perdona l’adultera e le ridà speranza; riafferma l’indissolubilità del matrimonio, ma si intrattiene con la Samaritana che aveva avuto cinque mariti e le rivela il segreto che non aveva detto a nessun altro, in modo così esplicito: “ Sono io (il Messia) che ti parlo” (Gv 4, 26).
Se ci domandiamo come si giustifica teologicamente una distinzione così netta tra peccato e peccatore, la risposta è semplicissima: il peccatore è una creatura di Dio, fatta a sua immagine, e conserva la propria dignità, nonostante tutte le aberrazioni; il peccato, al contrario, non è opera di Dio, non viene da lui, ma dal nemico. È lo stesso motivo per cui Cristo si è fatto in tutto simile a noi, “fuorché nel peccato” (cf. Ebr 4,15).
Un fattore importante per assolvere questo compito di discernimento dei segni dei tempi è la collegialità dei vescovi. Essa, dice un testo della Lumen gentium, consente “di decidere in comune tutte le questioni più importanti, mediante una decisione che l’opinione dell’insieme permette di equilibrare” . L’esercizio effettivo della collegialità apporta al discernimento e alla soluzione dei problemi la varietà delle situazioni locali e dei punti di vista, le luci e i doni diversi, di cui ogni chiesa e ogni vescovo è portatore.
Abbiamo una commovente illustrazione di ciò proprio nel primo “concilio” della Chiesa, quello di Gerusalemme. Lì si diede ampio spazio ai due punti di vista in contrasto, quello dei giudaizzanti e quello favorevole all’apertura ai pagani; ci fu una “accesa discussione”, ma alla fine questo consentì loro di annunciare le decisioni con quella straordinaria formula: “Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi…” (At 15, 6 ss.).
Si vede da qui come lo Spirito guida la Chiesa in due modi diversi: a volte direttamente e carismaticamente, attraverso rivelazione e ispirazione profetica; altre volte, collegialmente, attraverso il paziente e difficile confronto, e perfino il compromesso, tra le parti e i punti di vista diversi. Il discorso di Pietro il giorno di Pentecoste e in casa di Cornelio è molto diverso da quello fatto in seguito, per giustificare la sua decisione davanti agli anziani (cf. At 11, 4-18; 15, 14); il primo è di tipo carismatico, il secondo è di tipo collegiale.
Bisogna dunque avere fiducia nella capacità dello Spirito di operare, alla fine, l’accordo, anche se a volte può sembrare che l’intero processo sfugga di mano. Ogni volta che i pastori delle Chiese cristiane, a livello locale o universale, si riuniscono per fare discernimento o prendere decisioni importanti, dovrebbe esserci nel cuore di ognuno la fiduciosa certezza che il Veni creator ha racchiuso nei nostri due versi: Ductore sic te praevio – vitemus omne noxium, “con te che ci fai da guida, eviteremo ogni male”.
2. Il discernimento nella vita personale
Passiamo ora al discernimento nella vita personale. Come carisma applicato ai singoli, il discernimento degli spiriti ha subito nei secoli una notevole evoluzione. All’origine, abbiamo visto, il dono doveva servire a discernere le ispirazioni altrui, di coloro che avevano parlato o profetizzato nell’assemblea; in seguito, esso è servito soprattutto a discernere le proprie ispirazioni.
L’evoluzione non è arbitraria; si tratta infatti dello stesso dono, anche se applicato a oggetti diversi. Gran parte di quello che gli autori spirituali hanno scritto intorno al “dono del consiglio”, si applica anche al carisma del discernimento. Per mezzo del dono, o carisma, del consiglio, lo Spirito Santo aiuta a valutare le situazioni e orientare le scelte, non solo in base a criteri di saggezza e prudenza umana, ma anche alla luce dei principi soprannaturali della fede.
Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso; “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro una certa scelta. In ciò egli si inserisce in una tradizione già affermata. Un autore medievale aveva scritto:
“Chi mai può esaminare le ispirazioni, se vengono da Dio, se non gli è stato dato da Dio il loro discernimento, così da poter esaminare esattamente e con retto giudizio i pensieri, le disposizioni, le intenzioni dello spirito? Il discernimento è come la madre di tutte le virtù ed è necessario a tutti nel guidare la vita, sia propria che altrui…Questo è dunque il discernimento: l’unione del retto giudizio e della virtuosa intenzione” .
Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri . Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine. Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.
Alla base del discernimento in sant’Ignazio di Loyola, c’è la dottrina della “santa indifferenza”. Essa consiste nel porsi in uno stato di totale disponibilità ad accogliere la volontà di Dio, rinunciando, in partenza, a ogni preferenza personale, come una bilancia pronta a inclinarsi dal lato dove sarà il peso maggiore. L’esperienza della pace interiore diventa così il criterio principale in ogni discernimento. È da ritenersi conforme al volere di Dio, la scelta, che dopo prolungata ponderazione e preghiera, è accompagnata da maggior pace del cuore.
In fondo si tratta di mettere in pratica il vecchio consiglio che il suocero Ietro diede a Mosè: “presentare le questioni a Dio” e attendere in preghiera la sua risposta (cf. Es 18, 19). Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).
Il pericolo di alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. L’evangelista Giovanni vede, come fattore decisivo nel discernimento, “l’unzione che viene dal Santo” (1 Gv 2,20). Anche sant’Ignazio ricorda che in certi casi è solo l’unzione dello Spirito Santo che permette di discernere ciò che è da farsi . C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” .
Il discernimento non è, nel suo fondo, né un’arte, né una tecnica, ma un carisma, cioè un dono dello Spirito! Gli aspetti psicologici hanno una grande importanza, ma “secondaria”, vengono cioè in secondo luogo. Un Padre antico scriveva:
“Purificare l’intelletto è solo dello Spirito Santo…Bisogna dunque con ogni mezzo, soprattutto con la pace dell’anima, far ‘riposare’ su noi lo Spirito Santo, per avere presso di noi, sempre accesa, la lampada della conoscenza. Se essa splende senza interruzione nei recessi dell’anima, non solo i meschini e tenebrosi assalti dei demoni divengono manifesti all’intelletto, ma restano anche del tutto privi di forza, smascherati, come sono, da quella santa e gloriosa luce. Per questo l’Apostolo dice: Non spegnete lo Spirito (1 Ts 5,19)” .
Lo Spirito Santo non diffonde, abitualmente, nell’anima questa sua luce in modo miracoloso e straordinario, ma molto semplicemente, attraverso la parola della Scrittura. I più importanti discernimenti della storia della Chiesa sono avvenuti così. Fu ascoltando la parola del vangelo: “Se vuoi essere perfetto…”, che Antonio capì quello che doveva fare e iniziò il monachesimo.
Fu nello stesso modo che Francesco d’Assisi ricevette la luce per iniziare il suo movimento di ritorno al vangelo. “Dopo che il Signore mi diede dei frati -scrive nel suo Testamento- nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo vangelo”. Glielo rivelò ascoltando, durante una Messa, il brano evangelico in cui Gesù dice ai discepoli di andare per il mondo “senza prendere nulla per il viaggio: né bastone né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche” (cf. Lc 9,3) .
Ricordo io stesso un piccolo caso del genere. Un uomo venne da me durante una missione, presentandomi il suo problema. Aveva un ragazzo di undici anni non ancora battezzato. “Se lo battezzo, diceva, succede un dramma in famiglia, perché mia moglie si è fatta testimone di Geova e non vuole sentire parlare di battezzarlo nella Chiesa; se non lo battezzo, non mi sento tranquillo in coscienza, perché quando ci siamo sposati eravamo tutti e due cattolici e abbiamo promesso di battezzare i nostri figli”. Un caso classico di discernimento. Gli dissi di tornare il giorno dopo, per darmi tempo di pregare e riflettere. L’indomani lo vedo venirmi incontro radioso e dirmi: “Ho trovato la soluzione, padre. Ho letto nella mia Bibbia l’episodio di Abramo e ho visto che quando Abramo portò a immolare suo figlio Isacco, non disse nulla a sua moglie!”. La parola di Dio lo aveva illuminato meglio di ogni consigliere umano. Battezzai io stesso il ragazzo e fu una grande gioia per tutti.
Accanto all’ascolto della Parola, la pratica più comune per esercitare il discernimento a livello personale è l’ esame di coscienza. Esso però non dovrebbe essere limitato alla sola preparazione alla confessione, ma diventare una capacità costante di mettersi sotto la luce di Dio e lasciarsi “scrutare” nell’intimo da lui. A causa di un esame di coscienza non praticato o non fatto per bene, anche la grazia della confessione diventa problematica: o non si sa cosa confessare, oppure è caricata troppo di un peso psicologico e pedagogico, cioè indirizzata solo al miglioramento della vita. Un esame di coscienza ridotto soltanto alla preparazione alla confessione fa individuare alcuni peccati, ma non porta a una relazione autentica, a tu per tu con Cristo. Diventa facilmente un elenco di imperfezioni, confessate per sentirsi più a posto, senza quell’ atteggiamento di reale pentimento che fa sperimentare la gioia di avere in Gesú “un così grande Redentore”.
3. Lasciarsi guidare dallo Spirito Santo
Il frutto concreto di questa meditazione deve essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla, se non è lo Spirito Santo, (di cui la nuvola, secondo i Padri, era figura ), a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).
Dobbiamo guardarci da una tentazione: quella di voler dare consigli allo Spirito Santo, anziché riceverli. “Chi ha diretto lo Spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti?” (Is 40,13). Lo Spirito Santo dirige tutti, e non è diretto da nessuno; guida, non è guidato. C’è un modo sottile di suggerire allo Spirito Santo quello che dovrebbe fare con noi e come dovrebbe guidarci. A volte, addirittura, prendiamo noi delle decisioni e le attribuiamo con disinvoltura allo Spirito Santo.
San Tommaso d’Aquino parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale, scrive, il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” . È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).
Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse fare di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa nello Spirito Santo” .
Concludiamo recitando la strofa del Veni creator che più direttamente ci parla della guida dello Spirito Santo:
Hostem repellas longius
Pacemque dones protinus
Ductore sic te praevio
Vitemus omne noxium
Allontana da noi il nemico
Donaci presto la pace.
Con te che ci fai da guida
Eviteremo ogni male. Così sia!
1.Gaudium et spes, 4.
2.S. Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 1.7, 8 (CCC 94).
3.Lumen gentium, 22.
4.Baldovino di Canterbury, Trattati, 6 (PL 204, 466).
5.Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
6.Cf. G. Bottereau, Indifference, in “Dictionnaire de Spiritualité , vol 7, coll. 1688 ss
7.S. Ignazio di Loyola, Costituzioni, 141. 414 (ed. cit., pp. 452.503).
8.Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
9.Diadodo di Fotica, Cento capitoli, 28 (SCh 5, pp. 87 ss.).
10.Celano, Vita prima, 22 (FF, 356).
11.S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, III, 4, 21; Sui sacramenti, I, 6, 22.
12.S. Tommaso d’Aquio, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
13.Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5.

mercoledì 7 dicembre 2016

Credo nello Spirito Santo

prima predica di Avvento 2016
di Padre Raniero Cantalamessa
2 dic 16



1. La novità del dopo concilio
Con la celebrazione del 50° della chiusura del Concilio Vaticano II, si è conclusa la prima fase del “dopo Concilio” e se ne apre un’altra. Se la prima fase è stata caratterizzata dai problemi relativi alla “recezione” del Concilio, questa nuova sarà caratterizzata, credo, dal completare e integrare il Concilio; in altre parole, dal rileggere il Concilio alla luce dei frutti da esso prodotti, mettendo in luce anche ciò che in esso è mancante, o presente solo in fase seminale.
La novità maggiore del dopo Concilio, nella teologia e nella vita della Chiesa, ha un nome preciso: lo Spirito Santo. Il Concilio non aveva certo ignorato la sua azione nella Chiesa, ma ne aveva parlato quasi sempre “en passant”, menzionandolo spesso, ma senza metterne in luce il ruolo centrale, neppure nella costituzione sulla Liturgia. In una conversazione, nel tempo in cui eravamo insieme nella Commissione Teologica Internazionale, ricordo che il Padre Yves Congar usò un’immagine forte a questo riguardo; parlò di uno Spirito Santo, sparso qua e là nei testi, come si fa con lo zucchero sui dolci che, però, non entra a far parte della composizione della pasta.
Il disgelo tuttavia era iniziato. Possiamo dire che l’intuizione di san Giovanni XXIII del concilio come di “una novella Pentecoste per la Chiesa” ha trovato la sua attuazione solo in seguito, a concilio concluso, come è avvenuto spesso, del resto, nella storia dei concili.
Nell’anno entrante si celebra il 50° anniversario dell’inizio, nella Chiesa Cattolica, del Rinnovamento carismatico. È uno dei tanti segni – il più evidente per la vastità del fenomeno – del risveglio dello Spirito e dei carismi nella Chiesa. Il Concilio aveva spianato la via alla sua accoglienza, parlando, nella Lumen gentium, della dimensione carismatica della Chiesa, insieme a quella istituzionale e gerarchica, e insistendo sulla importanza dei carismi . Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012, Benedetto XVI affermò:
“Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.
Contemporaneamente, la rinnovata esperienza dello Spirito Santo ha stimolato la riflessione teologica . Dopo il concilio si sono moltiplicati i trattati sullo Spirito Santo: tra i cattolici, quello dello stesso Congar , di K. Rahner , di H. Mühlen e di von Balthasar , tra i luterani quello di J. Moltmann e di M. Welker , e di tanti altri. Da parte del magistero c’è stata l’enciclica di san Giovanni Paolo II “Dominum et vivificantem”. In occasione del XVI centenario del concilio di Costantinopoli del 381, lo stesso Sommo Pontefice, nel 1982, promosse un congresso internazionale di Pneumatologia in Vaticano, i cui atti furono pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana, in due grossi volumi intitolati “Credo in Spiritum Sanctum” .
Negli ultimi anni stiamo assistendo a deciso un passo avanti in questa direzione. Verso la fine della sua carriera, Karl Barth fece un’affermazione provocatoria che era, in parte, anche una autocritica. Disse che in futuro si sarebbe sviluppata una diversa teologia, la “teologia del terzo articolo”. Nello stesso senso si espresse Karl Rahner. Per “terzo articolo” intendevano, naturalmente, l’articolo del credo sullo Spirito Santo. Il suggerimento non è caduto nel vuoto. Da esso ha preso avvio l’attuale corrente denominata, appunto, “Teologia del terzo articolo”.
Non penso che tale corrente voglia sostituirsi alla teologia tradizionale (sarebbe un errore se lo pretendesse), ma piuttosto affiancarla e vivificarla. Essa si propone di fare dello Spirito Santo non soltanto l’oggetto del trattato che lo riguarda, la Pneumatologia, ma per così dire l’atmosfera in cui si svolge tutta la vita della Chiesa e ogni ricerca teologica; fare del Paraclito “la luce dei dogmi”, secondo un pensiero caro ai Padri della Chiesa.
La trattazione più completa di questa recente corrente teologica è il volume di saggi apparso in inglese nel settembre scorso, con il titolo “Teologia del terzo articolo. Per una dommatica pneumatologica” . In esso, partendo dalla dottrina trinitaria della grande tradizione, teologi di diverse Chiese cristiane offrono il loro contributo, come premessa a una teologia sistematica più aperta allo Spirito e più rispondente alle esigenze attuali. È stato chiesto anche a me, come cattolico, di contribuirvi con un saggio su “Cristologia e pneumatologia nei primi secoli della Chiesa”.

2. Il credo letto dal basso
Le ragioni che giustificano questo nuovo orientamento teologico non sono soltanto di ordine dogmatico, ma anche storico. In altre parole, si capisce meglio cos’è, e cosa si propone, la teologia del terzo articolo se si tiene conto di come si è formato l’attuale simbolo Niceno-Costantinopolitano. Da questa storia emerge chiara l’utilità di leggere una volta tale simbolo “alla rovescia”, cioè partendo dalla fine, anziché dall’inizio.
Cerco di spiegare cosa intendo dire. Il simbolo Niceno-Costantinopolitano riflette la fede cristiana nella sua fase finale, dopo tutte le chiarificazioni e le definizioni conciliari, terminate nel V secolo. Riflette l’ordine raggiunto alla fine del processo di formulazione del dogma, ma non riflette il processo stesso. Non corrisponde, in altre parole, al processo con cui di fatto la fede della Chiesa si è storicamente formata, e neppure corrisponde al processo con cui si giunge oggi alla fede, intesa come fede viva in un Dio vivo.
Nel credo attuale, si parte da Dio Padre e creatore, da lui si passa al Figlio e alla sua opera redentrice, e infine allo Spirito Santo operante nella Chiesa. Nella realtà, la fede seguì il cammino inverso. Fu l’esperienza pentecostale dello Spirito che portò la Chiesa a scoprire chi era veramente Gesú e quale era stato il suo insegnamento. Con Paolo e soprattutto con Giovanni, si arriva a risalire da Gesú al Padre. È il Paraclito che, secondo la promessa di Gesú (Gv 16,13), conduce i discepoli alla “piena verità” su di lui e sul Padre.
San Basilio di Cesarea riassume in questi termini lo svolgimento della rivelazione e della storia della salvezza:
“Il cammino della conoscenza di Dio procede dall’unico Spirito, attraverso l’unico Figlio, fino all’unico Padre; inversamente, la bontà naturale, la santificazione secondo natura, la dignità regale, si diffondono dal Padre, per mezzo dell’Unigenito, fino allo Spirito” .
In altre parole, nell’ordine della creazione e dell’essere, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della redenzione e della conoscenza, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre. Possiamo dire che san Basilio è il vero iniziatore della teologia del terzo articolo! Nella tradizione occidentale tutto questo è espresso sinteticamente nella strofa finale dell’inno Veni creator. Rivolgendosi allo Spirito Santo, in essa la Chiesa prega dicendo:

Per te sciamus da Patrem,
noscamus atque Filium,
te utriusque Spiritum
credamus omni tempore.
Fa’ che per mezzo tuo conosciamo il Padre
che conosciamo in pari tempo il Figlio
e in te che sei lo Spirito di entrambi
crediamo fermamente oggi e sempre.

Questo non significa minimamente che il credo della Chiesa non sia perfetto o che vada riformato. Esso non può che essere così come è. È il modo di leggerlo che qualche volta è utile cambiare, per rifare il cammino con cui si è formato. Tra i due modi di utilizzare il credo – come prodotto compiuto, oppure nel suo stesso farsi -, c’è la stessa differenza che fare personalmente, di buon mattino, la scalata del Monte Sinai partendo dal monastero di Santa Caterina, oppure leggere il racconto di uno che ha fatto la scalata prima di noi.

3. Un commento al “terzo articolo”
Con questo intento vorrei, nelle tre meditazioni di Avvento, proporre delle riflessioni su alcuni aspetti dell’azione dello Spirito Santo, partendo appunto dal terzo articolo del credo che lo riguarda. Esso comprende tre grandi affermazioni. Partiamo dalla prima:

a. “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita”.
Il credo non dice che lo Spirito Santo è “il” Signore (poco sopra, nel credo, si proclama: “e credo in un solo Signore Gesù Cristo”!). Signore (nel testo originale, to kyrion, neutro!) indica qui la natura, non la persona; dice che cosa è, non chi è lo Spirito Santo. “Signore” vuole dire che lo Spirito Santo condivide la Signoria di Dio, che è dalla parte del Creatore, non delle creature; in altre parole, che è di natura divina.
A questa certezza la Chiesa era giunta basandosi non solo sulla Scrittura, ma anche sulla propria esperienza di salvezza. Lo Spirito, scriveva già sant’Atanasio, non può essere una creatura perché quando siamo toccati da lui (nei sacramenti, nella Parola, nella preghiera) facciamo l’esperienza di entrare in contatto con Dio in persona, non con un suo intermediario. Se ci divinizza, vuol dire che è lui stesso Dio .
Non si poteva, nel simbolo di fede, dire la stessa cosa in modo più esplicito, definendo lo Spirito Santo puramente e semplicemente “Dio e consustanziale con il Padre”, come si era fatto per il Figlio? Certamente, e fu proprio questa la critica mossa subito da alcuni vescovi, tra cui san Gregorio Nazianzeno, alla definizione. Per ragioni di opportunità e di pace, si preferì dire la stessa cosa con espressioni equivalenti, attribuendo allo Spirito, oltre che il titolo Signore, anche la isotimia, cioè l’uguaglianza con il Padre e il Figlio nell’adorazione e nella glorificazione della Chiesa.
L’espressione secondo cui lo Spirito Santo“dà la vita” è desunta da diversi passi del Nuovo Testamento: “È lo Spirito che dà la vita” (Gv 6, 63); “La legge dello Spirito dà la vita in Cristo Gesù” (Rm 8, 2); “L’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45); “La lettera uccide, lo Spirito dà la vita” (2 Cor 3, 6).
Ci poniamo tre domande. 
Primo, che vita dà lo Spirito Santo? Risposta: da la vita divina, la vita di Cristo. Una vita super-naturale, non una super-vita naturale; crea l’uomo nuovo, non il superuomo di Nietzsche “gonfio di vita”. 
Secondo, dove ci dà tale vita? Risposta: nel battesimo, che è presentato infatti come un “rinascere dallo Spirito” (Gv 3, 5), nei sacramenti, nella parola di Dio, nella preghiera, nella fede, nella sofferenza accettata in unione con Cristo. 
Terzo, come ci dà la vita, lo Spirito? Risposta: facendo morire le opere della carne! “Se con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della carne vivrete”, dice san Paolo in Romani 8,13.

b. “… e procede dal Padre (e dal Figlio) e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”
Passiamo ora alla seconda grande affermazione del credo sullo Spirito Santo. Finora il simbolo di fede ci ha parlato della natura dello Spirito, non ancora della persona; ci ha detto che cos’è, non chi è lo Spirito; ci ha parlato di ciò che accomuna lo Spirito Santo al Padre e al Figlio – il fatto di essere Dio e di dare la vita. Con la presente affermazione si passa a ciò che distingue lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Quello che lo distingue dal Padre è che procede da lui (altri, infatti, è colui che procede, altri colui dal quale egli procede!); quello che lo distingue dal Figlio è che procede dal Padre non per generazione, ma per spirazione; non come il concetto (logos) che procede dalla mente, ma come il soffio che procede dalla bocca.
È l’elemento centrale dell’articolo del credo, quello con cui si intendeva definire il posto che il Paraclito occupa nella Trinità. Questa parte del simbolo è nota soprattutto per il problema del Filioque, che è stato per un millennio l’oggetto principale di disaccordo tra l’Oriente e l’Occidente. Non mi soffermo su questo problema fin troppo discusso, anche perché io stesso ne ho parlato in questa sede, trattando dell’accordo di fede tra Oriente e Occidente nella Quaresima dell’anno scorso.
Mi limito a mettere in luce quello che possiamo ritenere di questa parte del simbolo e che arricchisce la nostra fede comune, al di là delle dispute teologiche. Esso ci dice che lo Spirito Santo non è un parente povero nella Trinità. Non è un semplice “modo di agire” di Dio, una energia o un fluido che pervade l’universo come pensavano gli stoici; è una “relazione sussistente”, dunque una persona.
Non tanto la “terza persona singolare”, quanto piuttosto “la prima persona plurale”. Il “Noi” del Padre e del Figlio . Quando, per esprimerci in modo umano, il Padre e il Figlio parlano dello Spirito Santo, non dicono “egli”, ma dicono “noi”, perché egli è l’unità del Padre e del Figlio. Qui si vede la fecondità straordinaria dell’intuizione di sant’Agostino per il quale il Padre è colui che ama, il Figlio l’amato e lo Spirito l’amore che li unisce, il dono scambievole. Su ciò si basa la credenza della Chiesa occidentale, secondo cui lo Spirito Santo procede “dal Padre e dal Figlio”
Lo Spirito Santo, nonostante tutto, resterà sempre il Dio nascosto, anche se ne conosciamo gli effetti. Egli è come il vento: non si sa da dove viene e dove va, ma si vedono gli effetti del suo passaggio. È come la luce che illumina tutto ciò che sta davanti, rimanendo essa stessa nascosta.
Per questo è la persona meno conosciuta e amata dei Tre, nonostante sia l’Amore in persona. Ci è più facile pensare al Padre e al Figlio come “persone”, ma ci è più difficile per lo Spirito. Non ci sono categorie umane che possono aiutarci a comprendere questo mistero. Per parlare di Dio Padre ci è di aiuto la filosofia che si occupa della causa prima (il Dio dei filosofi); per parlare del Figlio abbiamo l’analogia umana del rapporto umano padre – figlio e abbiamo anche la storia, essendosi il Verbo fatto carne. Per parlare dello Spirito Santo non abbiamo se non la rivelazione e l’esperienza. La stessa Scrittura parla di lui servendosi quasi sempre di simboli naturali: la luce, il fuoco, il vento, l’acqua, il profumo, la colomba.
Comprenderemo pienamente chi è lo Spirito Santo solo in paradiso. Anzi lo vivremo in una vita che non avrà fine, in un approfondimento che ci darà gioia immensa. Sarà come un fuoco dolcissimo che inonderà la nostra anima e la colmerà di beatitudine, come quando l’amore investe il cuore di una persona e questa si sente felice.

c. “… e ha parlato per mezzo dei profeti”
Siamo alla terza e ultima grande affermazione sullo Spirito Santo. Dopo aver professato la nostra fede nell’azione vivificatrice e santificatrice dello Spirito nella prima parte dell’articolo (lo Spirito che è Signore e dà la vita), ora si accenna anche alla sua azione carismatica. Di essa si nomina un carisma per tutti, quello che Paolo ritiene il primo per importanza, e cioè la profezia (cf 1 Cor 14).
Anche del carisma profetico si menziona solo un momento: lo Spirito che “ha parlato per mezzo dei profeti”, cioè nell’Antico Testamento. L’affermazione si basa su diversi testi della Scrittura, ma in particolare su 2 Pietro 21: “Mossi da Spirito Santo, parlarono alcuni uomini da parte di Dio”.

4. Un articolo da completare
La Lettera agli Ebrei dice che “dopo aver parlato un tempo per mezzo dei profeti, negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi nel Figlio” (cf Eb 1,1-2). Lo Spirito non ha smesso dunque di parlare per mezzo dei profeti; lo ha fatto con Gesú e lo fa anche oggi nella Chiesa. Questa ed altre lacune del simbolo vennero colmate a poco a poco nella pratica della Chiesa, senza bisogno, per questo, di cambiare il testo del credo (come avvenne purtroppo nel mondo latino, con l’aggiunta del Filioque). Se ne ha un esempio nell’epiclesi della liturgia ortodossa detta di san Giacomo, che prega così:
“Manda…il tuo santissimo Spirito, Signore e vivificatore, che siede con te, Dio e Padre, e con il tuo Figlio unigenito; che regna, consustanziale e coeterno. Egli ha parlato nella Legge, nei Profeti e nel Nuovo Testamento; è disceso in forma di colomba sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume Giordano, riposando su di lui, ed è disceso sui santi apostoli…il giorno della santa Pentecoste” .
Si resterebbe delusi perciò se si volesse trovare nell’articolo sullo Spirito Santo tutto, o anche solo il meglio, della rivelazione biblica su di lui. Questo mette in evidenza la natura e il limite di ogni definizione dommatica. Il suo scopo non è di dire tutto su un dato della fede, ma di tracciare un perimetro dentro il quale si deve collocare ogni affermazione su di esso e che nessuna affermazione può contraddire. A ciò si aggiunge, nel nostro caso, il fatto che l’articolo fu composto in un momento in cui la riflessione teologica sul Paraclito era appena agli inizi e ragioni storiche contingenti (il desiderio di pace dell’imperatore) imponevano, come ho accennato sopra, un compromesso tra le parti.
Noi però non siamo lasciati con le sole parole del credo sul Paraclito. La teologia, la liturgia e la pietà cristiana, sia in Oriente che in Occidente, hanno rivestito di “carne e sangue” le scarne affermazioni del simbolo di fede. Nella sequenza di Pentecoste il rapporto intimo e personale dello Spirito Santo con ogni singola anima (una dimensione completamente assente nel simbolo), è espresso da titoli come “padre dei poveri, luce dei cuori, dolce ospite dell’anima e dolcissimo sollievo”.
La stessa sequenza rivolge allo Spirito Santo una serie di invocazioni particolarmente belle e rispondenti alle nostre necessità. Concludiamo, proclamandole insieme, magari cercando di individuare tra esse quella che sentiamo più necessaria per noi:

Lava quod est sórdidum,
riga quod est áridum,
sana quod est sáucium.
Flecte quod est rígidum,
fove quod est frígidum,
rege quod est dévium.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò ch’è sviato.

1. Lumen gentium 12.
2. Cf. La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, a cura di Claus Hartmann e Heribert Muhlen, Milano 1975 (ed. originale, Erfahrung und Theolgie des Heiligen Geistes, München 1974).
3. Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 2, Brescia 1982, pp. 157-224
4. K. Rahner, Erfahrung des Geistes. Meditation auf Pfingsten, Herder, Friburgo i. Br. 1977.
5. H. Mühlen , Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963
6. U. von Balthasar, Spiritus Creator, Brescia 1972, p. 109
7. J. Moltmann, Lo Spirito della vita, , Brescia 1994, pp. 102-108.
8. M. Welker, Lo Spirito di Dio. Teologia dello Spirito Santo, Brescia 1995, p.62.
9. Editi da Libreria Editrice Vaticana nel 1983.
10.Third Article Theology: A Pneumatological Dogmatics, a cura di Myk Habets, Fortress Press, Settembre 2016.
11.Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto XVIII, 47 (PG 32 , 153).
12.S. Atanasio, Lettere a Serapione, I, 24 (PG 26, 585).
13.Cf H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Aschendorff, Münster in W. 1963. Il primo a definire lo Spirito Santo il «divino Noi» è stato S. Kierkegaard, Diario II A 731 (23 aprile 1838).
14.In A. Hänggi – I. Pahl, Prex Eucharistica, Fribourg, Suisse, 1968, p. 250.