domenica 18 giugno 2017

Papa Francesco, Veglia di preghiera di Pentecoste in occasione del "Giubileo d'oro" del Rinnovamento Carismatico Cattolico

Roma, Circo Massimo, 3 giugno 2017





Fratelli e sorelle, grazie della testimonianza che voi date oggi, qui: grazie! Ci fa bene a tutti, fa bene anche a me, a tutti!
Nel primo capitolo del libro degli Atti degli Apostoli leggiamo: «Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (1,4-5)‎.
«E mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,1-4)‎.
Oggi siamo qui come in un Cenacolo a cielo aperto, perché non abbiamo paura: a cielo aperto, e anche con il cuore aperto alla promessa del Padre. Siamo riuniti “tutti noi credenti”, tutti quelli che professiamo che “Gesù è il Signore”, “Jesus is the Lord”. Molti sono venuti da diverse parti del mondo e lo Spirito Santo ci ha riuniti per stabilire legami di amicizia fraterna che ci incoraggino nel cammino verso l’unità, l’unità per la missione: non per stare fermi, no, per la missione, per proclamare che Gesù è il Signore - “Jesús es el Señor” -, per annunciare insieme l’amore del Padre per tutti i suoi figli. Per annunciare la Buona Novella a tutti i popoli. Per dimostrare che la pace è possibile. Non è tanto facile dimostrare a questo mondo di oggi che la pace è possibile, ma nel nome di Gesù possiamo dimostrare con la nostra testimonianza che la pace è possibile! Ma è possibile se noi siamo in pace tra noi. Se noi accentuiamo le differenze, siamo in guerra tra noi e non possiamo annunciare la pace. La pace è possibile a partire dalla nostra confessione che Gesù è il Signore e dalla nostra evangelizzazione in questo cammino [di unità]. E’ possibile. Mostrando che abbiamo differenze - questo è ovvio, abbiamo differenze -, ma che desideriamo essere una diversità riconciliata. Ecco, questa parola non dobbiamo dimenticarla ma dirla tutti: diversità riconciliata. E questa parola non è mia, è di un fratello luterano. Diversità riconciliata.
Ed ora siamo qui, e siamo molti! Ci siamo riuniti a pregare insieme, a chiedere la venuta dello Spirito Santo sopra ciascuno di noi, per uscire nelle vie della città e del mondo a proclamare la signoria di Gesù Cristo.
Il Libro degli Atti afferma: «Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (2,9-11)‎. Parlare nella stessa lingua, ascoltare, capire… Ci sono le differenze, ma lo Spirito ci fa capire il messaggio della risurrezione di Gesù nella nostra propria lingua.
Siamo riuniti qui credenti provenienti da 120 Paesi del mondo, a celebrare la sovrana opera dello Spirito Santo nella Chiesa, che prese l’avvio 50 anni fa e diede inizio…a una istituzione? No. A una organizzazione? No. A una corrente di grazia, alla corrente di grazia del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Opera che nacque… cattolica? No. Nacque ecumenica! Nacque ecumenica perché è lo Spirito Santo che crea l’unità ed è il medesimo Spirito Santo che diede l’ispirazione perché fosse così. E’ importante leggere le opere del cardinale Suenens su questo, è molto importante.
La venuta dello Spirito Santo trasforma uomini chiusi a causa della paura in coraggiosi testimoni di Gesù. Pietro, che aveva rinnegato Gesù tre volte, ricolmo della forza dello Spirito Santo proclama: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36).‎ E questa è la professione di fede di ogni cristiano! “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che è stato crocifisso”. Siete d’accordo su questa professione di fede? [rispondono: Sì!] E’ la nostra, di tutti, tutti, la stessa!
La Parola prosegue dicendo: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,44-45). Vendevano e aiutavano i poveri. C’erano alcuni “furbi” – pensiamo ad Anania e Saffira – sempre ce ne sono, ma tutti i credenti, la maggioranza, si aiutavano. «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,46-47). La comunità cresceva, e c’era lo Spirito che ispirava. A me piace tanto pensare a Filippo, quando l’angelo gli disse: “Va’ sulla strada di Gaza e trova quel proselito, ministro dell’economia della regina di Etiopia, Candace”. Era un proselito e leggeva Isaia. E Filippo gli spiegò la Parola, proclamò Gesù, e quello si convertì. E a un certo punto, disse: “Qui c’è dell’acqua: voglio essere battezzato”. Era lo Spirito che spinse Filippo ad andare là, ed è stato dall’inizio lo Spirito a spingere tutti i credenti a proclamare il Signore.
Oggi abbiamo scelto di riunirci qui, in questo luogo – lo ha detto il pastore Traettino – perché qui, durante le [antiche] persecuzioni vennero martirizzati dei cristiani, per il divertimento di quelli che stavano a guardare. Oggi ci sono più martiri di ieri! Oggi ci sono più martiri, cristiani. Quelli che uccidono i cristiani, prima di ucciderli non domandano loro: “Tu sei ortodosso? Tu sei cattolico? Tu sei evangelico? Tu sei luterano? Tu sei calvinista?”. No. “Tu sei cristiano?” – “Sì”: sgozzato, subito. Oggi ci sono più martiri che nei primi tempi. E questo è l’ecumenismo del sangue: ci unisce la testimonianza dei nostri martiri di oggi. In diversi posti del mondo il sangue cristiano viene sparso. Oggi è più urgente che mai l’unità dei cristiani, uniti per opera dello Spirito Santo, nella preghiera e nell’azione per i più deboli. Camminare insieme, lavorare insieme. Amarci. Amarci. E insieme cercare di spiegare le differenze, metterci d’accordo, ma in cammino! Se noi rimaniamo fermi, senza camminare, mai, mai ci metteremo d’accordo. E’ così, perché lo Spirito ci vuole in cammino.
50 anni di Rinnovamento Carismatico Cattolico. Una corrente di grazia dello Spirito! E perché corrente di grazia? Perché non ha né fondatore, né statuti, né organi di governo. Chiaramente in questa corrente sono nate molteplici espressioni che, certo, sono opere umane ispirate dallo Spirito, con vari carismi, e tutte al servizio della Chiesa. Ma alla corrente non si possono porre dighe, né si può rinchiudere lo Spirito Santo in una gabbia!
Sono passati 50 anni. Quando si giunge a questa età le forze cominciano a declinare. E’ la metà della vita - nella mia terra diciamo “el cincuentazo” -, le rughe diventano più profonde – a meno che tu non ti trucchi, ma le rughe ci sono –, i capelli grigi aumentano, e incominciamo anche a dimenticarci alcune cose…‎
50 anni è un momento della vita adatto per fermarci e fare una riflessione. E’ il momento della riflessione: la metà della vita. E io vi direi: è il momento per andare avanti con più forza, lasciandoci alle spalle la polvere del tempo che abbiamo lasciato accumulare, ringraziando per quello che abbiamo ricevuto e affrontando il nuovo con fiducia nell’azione dello Spirito Santo!
La Pentecoste fa nascere la Chiesa. Lo Spirito Santo, la promessa del Padre annunciata da Gesù Cristo, è Colui che fa la Chiesa, la sposa dell’Apocalisse, un’unica sposa! Lo ha detto il pastore Traettino: una sposa ha il Signore!
Il dono più prezioso che tutti noi abbiamo ricevuto è il Battesimo. Ed ora lo Spirito ci conduce nel cammino di conversione che attraversa tutto il mondo cristiano e che è una spinta in più perché il Rinnovamento Carismatico Cattolico sia un luogo privilegiato per percorrere la via verso l’unità!
Questa corrente di grazia è per tutta la Chiesa, non solo per alcuni; nessuno di noi è il “padrone” e tutti gli altri servi. No. Tutti siamo servi di questa corrente di grazia.
Insieme a questa esperienza, voi ricordate continuamente alla Chiesa la forza della preghiera di lode. Lode che è la preghiera di riconoscenza e azione di grazie per l’amore gratuito di Dio. Può darsi che questo modo di pregare non piaccia a qualcuno, ma è certo che si inserisce pienamente nella tradizione biblica. I Salmi, per esempio: Davide che danzava davanti all’Arca dell’Alleanza, pieno di giubilo… E per favore, non cadiamo nell’atteggiamento di cristiani con il “complesso di Micol”, che si vergognava di come Davide lodava Dio [danzando davanti all’Arca].
Giubilo, allegria, gioia frutto della medesima azione dello Spirito Santo! Il cristiano o sperimenta la gioia nel suo cuore o c’è qualcosa che non funziona. La gioia dell’annuncio della Buona Novella del Vangelo. Gesù nella sinagoga di Nazareth legge il brano di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cfr Is 61,1-2). Il lieto annuncio: non dimenticare questo. Il lieto annuncio: l’annuncio cristiano è sempre lieto. Il terzo documento di Malines, “Rinnovamento Carismatico e Servizio all’Uomo”, scritto dal Cardinale Suenens e da Dom Helder Camara, è chiaro: rinnovamento carismatico e anche servizio all’uomo.
Battesimo nello Spirito Santo, lode, servizio all’uomo. Le tre cose sono indissolubilmente unite. Posso dar lode in modo profondo, ma se non aiuto i più bisognosi, non basta. «Nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), diceva il Libro degli Atti. Non verremo giudicati per la nostra lode ma per quanto abbiamo fatto per Gesù. “Ma Signore, quando lo abbiamo fatto per te? Quando lo avete fatto per uno di questi piccoli, lo avete fatto a me” (cfr Mt 25,39-40).
Care sorelle e cari fratelli, vi auguro un tempo di riflessione, di memoria delle origini; un tempo per lasciarvi alle spalle tutte le cose aggiunte dal proprio io e trasformarle in ascolto e accoglienza gioiosa dell’azione dello Spirito Santo, che soffia dove e come vuole!
Ringrazio la Fraternità Cattolica e la ICCRS per l’organizzazione di questo Giubileo d’Oro, per questa Veglia. E ringrazio ognuno dei volontari che l’hanno reso possibile, molti dei quali si trovano qui. Ho voluto salutare i membri dello staff dell’ufficio quando sono arrivato, perché so che hanno lavorato molto. E non a pagamento! Hanno lavorato molto. La maggioranza sono giovani di diversi continenti. Che il Signore li benedica tanto!
Ringrazio in particolare per il fatto che la richiesta che vi ho fatto due anni fa, di dare al Rinnovamento Carismatico mondiale un unico servizio internazionale basato qui, abbia incominciato a concretizzarsi negli Atti Costitutivi di questo nuovo unico servizio. È il primo passo, ne seguiranno altri, però presto l’unità, opera dello Spirito Santo, sarà una realtà. «Io faccio nuove tutte le cose», dice ‎il Signore (Ap 21,5).‎
Grazie, Rinnovamento Carismatico Cattolico, per quello che avete dato alla Chiesa in questi 50 anni! La Chiesa conta su di voi, sulla vostra fedeltà alla Parola, sulla vostra disponibilità al servizio e sulla testimonianza di vite trasformate dallo Spirito Santo!
Condividere con tutti nella Chiesa il Battesimo nello Spirito Santo, lodare il Signore senza sosta, camminare insieme con i cristiani di diverse Chiese e comunità cristiane nella preghiera e nell'azione per i più bisognosi, servire i più poveri e gli infermi: questo si attendono la Chiesa e il Papa da voi, Rinnovamento Carismatico Cattolico, ma da voi tutti: tutti, tutti voi che siete entrati in questa corrente di grazia! Grazie.

martedì 13 giugno 2017

Li udiamo proclamare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio

Veglia ecumenica di Pentecoste con Papa Francesco,
di Padre Raniero Cantalamessa
Roma, Circo Massimo, 3 giugno 2017

Dagli Atti degli apostoli, capitolo secondo:

“Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: «Che cosa significa questo?». (Atti 2, 5-13).
Questa scena si rinnova oggi tra noi. Siamo venuti anche noi “da ogni nazione che è sotto il cielo” e siamo qui per proclamare insieme “le grandi opere di Dio”.
C’è un importante messaggio da scoprire in questa parte del racconto di Pentecoste. Fin dall’antichità si è capito che l’autore degli Atti – cioè, in primo luogo, lo Spirito Santo! – con questa insistenza sul fenomeno delle lingue ha voluto farci capire che a Pentecoste avviene qualcosa che rovescia quello che era avvenuto a Babele. Questo spiega perché il racconto di Babele di Genesi 11 è inserito tradizionalmente tra le letture bibliche della vigilia di Pentecoste.
I costruttori di Babele non erano, come si pensava un tempo, degli empi che intendevano sfidare Dio, una specie di corrispettivo dei titani della mitologia greca. No, erano degli uomini pii e religiosi. La torre che volevano costruire era un tempio alla divinità, uno di quei templi a terrazze sovrapposte, chiamate ziggurat, di cui restano ancora rovine in Mesopotamia.
Dov’era allora il loro peccato? Ascoltiamo cosa dicono tra loro nel mettersi all’opera: “Dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen 11, 4). Martin Lutero fa un’osservazione illuminante a proposito di queste parole:
“Costruiamoci una città e una torre”: costruiamo per noi – non per Dio […]. “Facciamoci un nome”: facciamolo per noi. Non si danno premura che sia glorificato il nome di Dio, essi sono preoccupati di fare grande il proprio nome” .
In altre parole, Dio è strumentalizzato; deve servire alla loro volontà di potenza. Pensavano, secondo la mentalità del tempo, che offrendo sacrifici da una altezza maggiore potevano strappare alla divinità vittorie sui popoli vicini. Ecco perché Dio è costretto a confondere le loro lingue e mandare all’aria il loro progetto.
Questo porta di colpo la vicenda di Babele e dei suoi costruttori vicinissima a noi. Quanta parte delle divisioni tra i cristiani era dovuta al segreto desiderio di farci un nome, di elevarci al di sopra degli altri, di trattare con Dio da una posizione di superiorità rispetto agli altri! Quanta parte era dovuta al desiderio di farsi un nome, o di farlo a quello della propria Chiesa, più che a Dio! Di qui la nostra Babele!
Passiamo ora a Pentecoste. Anche qui vediamo un gruppo di uomini, gli apostoli, che si accingono a costruire una torre che va dalla terra al cielo, la Chiesa. A Babele si parlava ancora una sola lingua e a un certo punto nessuno comprende più l’altro; qui parlano tutti lingue diverse eppure tutti capiscono gli apostoli. Perché? È che lo Spirito Santo ha operato in essi una rivoluzione copernicana.
Prima di questo momento anche gli apostoli erano preoccupati di farsi un nome e per questo discutevano spesso “chi tra loro fosse il più grande”. Ora lo spirito Santo li ha decentrati da se stessi e ricentrati su Cristo. Il cuore di pietra è andato in frantumi e al suo posto batte il “cuore di carne” (Ez 36, 26). Sono stati “battezzati nello Spirito Santo”, come aveva promesso Gesú prima di lasciarli (Atti 1, 8), cioè completamente sommersi dall’oceano dell’amore di Dio effuso su di loro (cf. Rom 5,5).
Sono abbagliati dalla gloria di Dio. Il loro parlare in lingue diverse si spiega anche con il fatto che parlavano con la lingua, con gli occhi, con il volto, con le mani, con lo stupore di chi ha visto cose che non si possono ridire. “Li udiamo proclamare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. Ecco perché tutti li comprendono: non parlano più di se stessi, ma di Dio!
Dio ci chiama ad attuare nella nostra vita la stessa conversione: da noi stessi a Dio, dalla piccola unità che è la nostra parrocchia, il nostro movimento, la nostra stessa Chiesa, alla grande unità che è quella dell’intero corpo di Cristo, anzi dell’intera umanità. È il passo ardito che papa Francesco sta spingendo noi cattolici a fare e che i rappresentanti di altre Chiese qui convenuti mostrano di volere condividere.
Già san’Agostino aveva messo in chiaro che la comunione ecclesiale si realizza per gradi e può avere diversi livelli: da quello più alto che consiste nel condividere sia i sacramenti esterni che la grazia interiore dello Spirito Santo, a quello meno completo che consiste nel condividere lo stesso Spirito Santo. San Paolo abbracciava nella sua comunione “tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1 Cor 1,2). Una formula che dobbiamo forse riscoprire e tornare a valorizzare. Essa ci permette di estendere la nostra comunione anche ai fratelli Ebrei messianici.
Il fenomeno pentecostale e carismatico ha una vocazione e una responsabilità particolari, nei confronti dell’unità dei cristiani. La sua vocazione ecumenica appare ancora più evidente, se ripensiamo a ciò che avvenne all’inizio della Chiesa. Come fece il Risorto per spingere gli apostoli ad accogliere i pagani nella Chiesa? Dio mandò lo Spirito Santo su Cornelio e la sua casa nello stesso modo e con le stesse manifestazioni con cui lo aveva inviato all’inizio sugli apostoli. Sicché a Pietro non rimase che tirare la conclusione: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17). Al concilio di Gerusalemme, Pietro ripeté questo stesso argomento: “Dio non ha fatto discriminazione tra noi e loro” (At 15, 9).
Ora noi abbiamo visto ripetersi sotto i nostri occhi questo stesso prodigio, su scala, questa volta, mondiale. Dio ha effuso il suo Spirito Santo su milioni di credenti, appartenenti a quasi tutte le denominazioni cristiane e, affinché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni, lo ha effuso con le stesse identiche manifestazioni, inclusa la più singolare che è il parlare in lingue. Anche a noi non resta che tirare la stessa conclusione di Pietro: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi, chi siamo noi per continuare a dire di altri credenti cristiani: non appartengono al corpo di Cristo, non sono dei veri discepoli di Cristo”?
* * *
Dobbiamo vedere in che cosa consiste la via carismatica all’unità. San Paolo ha tracciato alla Chiesa questo programma: “Fare la verità con la carità” (Ef 4, 15). Quello che dobbiamo fare non è scavalcare il problema della fede e delle dottrine, per ritrovarci uniti sul fronte dell’azione comune dell’evangelizzazione. L’ecumenismo ha sperimentato, ai suoi inizi, questa via e ne ha costatato il fallimento. Le divisioni riemergono ben presto, inevitabilmente, anche sul fronte dell’azione. Non dobbiamo sostituire la carità alla verità, ma piuttosto tendere alla verità con la carità; cominciare ad amarci per meglio comprenderci .
La cosa straordinaria, circa questa via ecumenica basata sull’amore, e che essa è possibile subito, è tutta aperta davanti a noi. Non possiamo “bruciare le tappe” circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza, nelle sedi appropriate. Possiamo però bruciare le tappe nella carità, ed essere uniti, fin d’ora.
E l’unico “debito” che abbiamo gli uni verso gli altri (cf. Rom 13, 8). Le differenze non possono essere una scusa per non farlo. Cristo non ci ha comandato di amare solo quelli che la pensano come noi, che condividono interamente il nostro credo. Se amate solo costoro, ci ha ammonito, che fate di speciale che non facciano anche i pagani? (cf. Mt 5, 46).
Noi possiamo accoglierci l’un l’altro perché quello che già ci unisce è infinitamente più importante di quello che ancora ci divide. Ci unisce la stessa fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; Gesù Signore, vero Dio e vero uomo; la comune speranza della vita eterna, il comune impegno per l’evangelizzazione, il comune amore per il corpo di Cristo che e la Chiesa.
Ci unisce anche un’altra cosa: la comune sofferenza e il comune martirio per Cristo. In tante parti del mondo, i credenti delle diverse Chiese stanno condividendo le stesse sofferenze, sopportando lo stesso martirio per Cristo. Essi non vengono perseguitati e uccisi perché cattolici, anglicani, pentecostali o altro, ma perché “cristiani”. Agli occhi del mondo noi siamo già una cosa sola, ed è una vergogna se non lo siamo davvero, anche nella realtà.
Come fare, in concreto, per mettere in pratica questo messaggio di unità e d’amore? Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
“La carità è paziente…
La carità non si vanta…
La carità non manca di rispetto…
Non cerca solo il suo interesse [sottinteso: ma anche quello delle altre Chiese]
Non tiene conto del male ricevuto [sottinteso: da altri cristiani, ma piuttosto di quello fatto ad essi] ( l Cor 13,4 ss).
“Beato quel servo -diceva san Francesco d’Assisi in una delle sue Ammonizioni – che si rallegra del bene che Dio fa per mezzo degli altri, come se lo facesse per mezzo suo”. Noi possiamo dire: Beato quel cristiano che è capace di rallegrarsi del bene che Dio fa per mezzo di altre Chiese, come per il bene che fa per mezzo della propria Chiesa.
* * *
Il profeta Aggeo ha un oracolo che sembra scritto per noi in questo momento della storia. Il popolo d’Israele è appena ritornato dall’esilio, ma anziché ricostruire insieme la casa di Dio, ognuno si mette a ricostruire ed abbellire la propria casa. Dio manda allora il suo profeta con un messaggio di rimprovero:
Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina? Ora, così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene sul vostro comportamento! Avete seminato molto, ma avete raccolto poco. […] Riflettete bene sul vostro comportamento! Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore (Ag 1, 4-8).
Dobbiamo sentire come rivolto a noi questo stesso rimprovero di Dio e pentirci. Coloro che ascoltarono il discorso di Pietro il giorno di Pentecoste “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘Che dobbiamo fare, fratelli?” Pentitevi –fu la risposta dell’apostolo -, dopo riceverete il dono dello Spirito Santo” (Atti 2, 37 s.). Una rinnovata effusione di Spirito Santo non sarà possibile senza un corale movimento di pentimento da parte di tutti i cristiani. Sarà una delle intenzioni principali della preghiera che seguirà questo momento di condivisione.
Dopo che il popolo d’Israele si accinse a ricostruire il tempio di Dio, il profeta Aggeo fu inviato di nuovo al popolo, ma questa volta con messaggio di incoraggiamento e di consolazione:
Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore -, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi […] Il mio spirito sarà con voi, non temete” (Ag 2, 4-5).
La stessa parola di consolazione è rivolta ora a noi cristiani e io ardisco farla risuonare in questo luogo, non come una semplice citazione biblica, ma come parola di Dio viva ed efficace che opera ora e qui quello che significa: “Coraggio, papa Francesco! Coraggio capi e rappresentanti di altre confessioni cristiane! Coraggio popolo tutto di Dio, e al lavoro perché io sono con voi, dice il Signore! Il mio Spirito sarà con voi”.

lunedì 1 maggio 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della Risurrezione di Cristo

quarta predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
31 marzo 2017


Abbiamo riflettuto nelle prime due meditazioni di Quaresima sullo Spirito Santo che ci introduce alla piena verità sulla persona di Cristo, facendocelo proclamare Signore e vero Dio. Nell’ultima meditazione siamo passati dall’essere all’agire di Cristo, dalla sua persona al suo operato, e in particolare sul mistero della sua morte redentrice. Oggi ci proponiamo di meditare sul mistero della sua e della nostra risurrezione.
San Paolo attribuisce apertamente la risurrezione di Gesú da morte all’opera dello Spirito Santo. Dice che Cristo “è stato costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti” (Rom 1,4). In Cristo è diventata realtà la grande profezia di Ezechiele sullo Spirito che entra nelle ossa aride, le risuscita dalle loro tombe e fa di una moltitudine di morti “un esercito grande, sterminato” di risorti alla vita e alla speranza (cf. Ez 37, 1-14).
Ma non è su questa linea che vorrei proseguire la mia meditazione. Fare dello Spirito Santo il principio ispiratore di tutta la teologia (l’intento della cosiddetta Teologia del terzo articolo!) non significa far entrare a forza lo Spirito Santo in ogni affermazione, nominandolo a ogni piè sospinto. Non sarebbe nella natura del Paraclito che, come quella della luce, è di illuminare ogni cosa restando lui stesso, per così dire, nell’ombra, come dietro le quinte. Più che parlare “dello” Spirito Santo, la Teologia del terzo articolo consiste nel parlare “nello” Spirito Santo, con tutto ciò che questo semplice cambio di preposizione comporta.
1. La risurrezione di Cristo: approccio storico

Diciamo anzitutto qualcosa sulla risurrezione di Cristo come fatto “storico”. Possiamo definire la risurrezione un evento storico, nel senso comune di questo termine, cioè di realmente accaduto, nel senso, cioè, in cui storico si oppone a mitico e a leggendario? Per esprimerci nei termini del dibattito recente: Gesù è risorto solo nel kerigma, cioè nell’annuncio della Chiesa (come qualcuno ha affermato sulla scia di Rudolf Bultmann), o invece è risuscitato anche nella realtà e nella storia? Ancora: è risorto lui, la persona di Gesù, o è risorta solo la sua causa, nel senso metaforico in cui risorgere significa il sopravvivere, o il riemergere vittorioso di un’idea, dopo la morte di chi l’ha proposta?
Vediamo dunque in che senso si dà un approccio anche storico alla risurrezione di Cristo. Non perché qualcuno di noi qui abbia bisogno di essere persuaso di questo, ma, come dice Luca all’inizio del suo vangelo, “perché possiamo renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo ricevuto” (cf Lc 1, 4) e che trasmettiamo agli altri.
La fede dei discepoli, salvo qualche eccezione (Giovanni, le pie donne), non regge alla prova della sua tragica fine. Con la passione e la morte, il buio ricopre tutto. Il loro stato d’animo traspare dalle parole dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui… ma ormai sono passati tre giorni” (Lc 24, 21). Siamo a un punto morto della fede. Il caso Gesù è considerato chiuso.
Adesso – sempre in veste di storici – portiamoci a qualche anno, anzi a qualche settimana, dopo. Che incontriamo? Un gruppo di uomini, lo stesso che era stato accanto a Gesù, il quale va ripetendo, a voce alta, che Gesù di Nazareth è lui il Messia, il Signore, il Figlio di Dio; che è vivo e che verrà a giudicare il mondo. Il caso di Gesù non solo è riaperto, ma è portato in breve tempo a una dimensione assoluta e universale. Quell’uomo interessa non solo il popolo d’Israele, ma tutti gli uomini di tutti i tempi. “La pietra scartata dai costruttori, – dice san Pietro – è diventata testata d’angolo” (1 Pt 2, 4), cioè principio di una nuova umanità. D’ora in poi, lo si sappia o no, non c’è alcun altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è possibile essere salvati, se non quello di Gesù di Nazareth (cf At 4, 12).
Che cosa ha determinato un cambiamento tale per cui gli stessi uomini che prima avevano rinnegato Gesù o erano fuggiti, adesso dicono in pubblico queste cose, fondano Chiese e si lasciano perfino imprigionare, flagellare, uccidere per lui? Essi ci danno, in coro, questa risposta: “È risorto! L’abbiamo visto!”. L’ultimo atto che può compiere lo storico, prima di cedere la parola alla fede, è verificare quella risposta.
La risurrezione è un evento storico, in un senso particolarissimo. Essa è al limite della storia, come quel filo che divide il mare dalla terra ferma. Vi è dentro e fuori nello stesso tempo. Con essa, la storia si apre a ciò che è al di là della storia, all’escatologia. È quindi, in certo senso, la rottura della storia e il suo superamento, così come la creazione ne è l’inizio. Questo fa sì che la risurrezione sia un evento in se stesso non testimoniabile e non attingibile con le nostre categorie mentali che sono tutte legate all’esperienza del tempo e dello spazio. E difatti nessuno assiste all’istante in cui Gesù risorge. Nessuno può dire di aver visto Gesù risorgere, ma solo di averlo visto risorto.
La risurrezione dunque si conosce a posteriori, in seguito. Come è la presenza fisica del Verbo in Maria che dimostra il fatto che si è incarnato; così la presenza spirituale di Cristo nella comunità, attestata dalle apparizioni, dimostra che è risorto. Questo spiega il fatto che nessuno storico profano fa parola della risurrezione. Tacito, che pure ricorda la morte di “un certo Cristo” al tempo di Ponzio Pilato , tace della risurrezione. Quell’evento non aveva rilevanza e senso se non per chi ne sperimentava le conseguenze, in seno alla comunità.
In che senso allora parliamo di un approccio storico alla risurrezione? Quello che si offre alla considerazione dello storico e gli permette di parlare della risurrezione, sono due fatti: primo, l’improvvisa e inspiegabile fede dei discepoli, una fede così tenace da resistere perfino alla prova del martirio; secondo, la spiegazione che di tale fede gli interessati ci hanno lasciato. Ha scritto un eminente esegeta: “Nel momento decisivo, quando Gesù fu catturato e giustiziato, i discepoli non nutrivano alcuna attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il caso di Gesù. Dovette quindi intervenire qualcosa che in poco tempo, non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, ma li portò anche a un’attività del tutto nuova e alla fondazione della Chiesa. Questo “qualcosa” è il nucleo storico della fede di Pasqua” .
È stato giustamente notato che, se si nega il carattere storico e oggettivo della risurrezione, la nascita della fede e della Chiesa diventerebbe un mistero ancora più inspiegabile della risurrezione stessa: “L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento” .
Qual è allora il punto di approdo della ricerca storica a proposito della risurrezione? 

Possiamo coglierlo nelle parole dei discepoli di Emmaus. Alcuni discepoli il mattino di Pasqua sono andati al sepolcro di Gesù e hanno trovato che le cose stavano come avevano riferito le donne, andate prima di loro, “ma lui non l’hanno visto” (cf. Lc 24, 24). Anche la storia si reca al sepolcro di Gesù e deve constatare che le cose stanno così come i testimoni hanno detto. Ma lui, il Risorto, non lo vede. Non basta constatare storicamente i fatti, bisogna “vedere” il Risorto, e questo non lo può dare la storia, ma solo la fede . Chi arriva correndo dalla terraferma al sponda del mare deve arrestarsi di colpo; può spingersi oltre con lo sguardo, ma non con i piedi.
2. Significato apologetico della risurrezione

Passando dalla storia alla fede, cambia anche il modo di parlare della risurrezione. Quello del Nuovo Testamento e della liturgia della Chiesa è un linguaggio assertivo, apodittico, che non si fonda su dimostrazioni dialettiche. “Ora invece Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15, 20), dice Paolo. Qui si è ormai sul piano della fede, non più della dimostrazione. È quello che chiamiamo il kerygma. “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere”, canta la liturgia il giorno di Pasqua: “Noi sappiamo che Cristo è veramente risorto”. Non solo crediamo, ma avendo creduto, sappiamo che è così, ne siamo sicuri. La prova più sicura della risurrezione si ha dopo, non prima, che si è creduto, perché allora si sperimenta che Gesú è vivo.
Ma che cosa è la risurrezione considerata dal punto di vista della fede? È la testimonianza di Dio su Gesù Cristo. Dio Padre che, in vita, aveva già accreditato Gesù di Nazareth con prodigi e segni, ora ha posto un sigillo definitivo al suo riconoscimento, risuscitandolo da morte. Nel discorso di Atene, san Paolo formula così la cosa: “Dio lo ha risuscitato dai morti dando così a tutti gli uomini una prova sicura su di lui” (At 17, 31). La risurrezione è il potente “Sì” di Dio, il suo “Amen” pronunciato sulla vita del suo Figlio Gesù.
La morte di Cristo non era, per se stessa, sufficiente a testimoniare la verità della sua causa. Molti uomini – ne abbiamo una tragica riprova ai nostri giorni – muoiono per cause sbagliate, addirittura per cause inique. La loro morte non ha reso vera la loro causa; ha solamente testimoniato che essi credevano nella verità di essa. La morte di Cristo non è la garanzia della sua verità, ma del suo amore, giacché “nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per la persona amata” (Gv 15, 13).
Soltanto la risurrezione costituisce il sigillo dell’autenticità divina di Cristo. Ecco perché, a chi gli chiedeva un segno, Gesù rispose: “Distruggete questo tempio ed io in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2, 18 s) e in altro luogo dice: “Non sarà dato a questa generazione nessun segno se non il segno di Giona” che dopo tre giorni nel ventre del pesce rivide la luce (Mt 16,4). Paolo ha ragione di edificare sulla risurrezione, come sul suo fondamento, tutto l’edificio della fede: “Se Cristo non fosse risorto, sarebbe vana la nostra fede. Noi saremmo falsi testimoni di Dio… Saremmo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15, 14-15.19). Si capisce perché sant’Agostino può dire che “la fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo”. Che Cristo sia morto tutti lo credono, anche i pagani, ma che sia risorto, solo i cristiani lo credono, e non è cristiano chi non lo crede .
3. Significato misterico della risurrezione

Fin qui il significato apologetico della risurrezione di Cristo, teso cioè a stabilire l’autenticità della missione di Cristo e la legittimità della sua pretesa divina. Ad esso bisogna aggiungere tutto un altro significato che potremmo chiamare misterico o salvifico, in quanto riguarda anche noi che crediamo. La risurrezione di Cristo ci riguarda ed è un mistero “per noi”, perché fonda la speranza della nostra stessa risurrezione da morte:
“Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom 8,11).
La fede in una vita ultraterrena appare, in maniera chiara ed esplicita, solo verso la fine dell’Antico Testamento. Il Secondo libro dei Maccabei ne costituisce la testimonianza più avanzata: “Dopo che saremo morti — esclama uno dei sette fratelli ucciso sotto Antioco — (Dio) ci risusciterà a vita nuova ed eterna” (cf. 2 Macc 7,1-14). Ma questa fede non nasce improvvisamente, dal nulla; si radica vitalmente in tutta la precedente rivelazione biblica, di cui rappre¬senta la conclusione attesa e, per così dire, il frutto più maturo.
Soprattutto due certezze spinsero a questa conclusione: la certezza dell’onnipotenza di Dio e quella della insufficienza e dell’ingiustizia della retribuzione terrena. Appariva sempre più evidente — specie dopo l’esperienza dell’esilio — che la sorte dei buoni in questo mondo è tale che, senza la speranza di una retribuzione diversa dei giusti dopo la morte, sarebbe impossibile non cadere nella disperazione. In questa vita, infatti, tutto capita allo stesso modo al giusto e all’empio, sia la felicità che la sventura. Il libro del Qoelet rappresenta l’espressione più lucida di questa amara conclusione (cf. Qo 7, 15).
Il pensiero di Gesú sull’argomento è espresso nella discussione con i Sadducei sul caso della donna che aveva avuto sette mariti (Lc 20, 27-38). Attenendosi alla rivelazione biblica più antica, quella mosaica, essi non avevano accettato la dottrina della risurrezione dei morti che consideravano una novità. Rifacendosi alla legge del levirato (Deut 25: la donna rimasta vedova, senza figli maschi, viene sposata dal cognato), essi ipotizzano il caso limite di una donna che è passata, in questo modo, attraverso sette mariti. Alla fine, sicuri di aver dimostrato l’assurdità della risurrezione, domandano: “Questa donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie”?
Senza discostarsi dal terreno scelto dagli avversari, con poche parole, Gesù dapprima svela dov’è l’errore dei sadducei e lo corregge, poi dà alla fede nella risurrezione la sua fondazione più profonda e più convincente. Gesù si pronuncia su due cose: sul modo e sul fatto della risurrezione. Quanto al fatto che ci sarà una risurrezione dei morti, Gesù ricorda l’episodio del roveto ardente dove Dio si proclama “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Se Dio si proclama “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, quando Abramo, Isacco e Giacobbe sono morti da generazioni, e se, d’altra parte, “Dio è Dio dei vivi e non dei morti”, allora vuol dire che Abramo, Isacco e Giacobbe da qualche parte sono vivi!
Più che sulla risposta di Gesú ai Sadducei, la fede nella risurrezione si fonda però sul fatto della sua risurrezione da morte. “Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, esclama Paolo, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste ri-surrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato!” (1 Cor. 15, 12-13). È assurdo pensare a un corpo, il cui capo regna glorioso in cielo e il cui corpo marcisce eternamente sulla terra o finisca nel nulla.
La fede cristiana nella risurrezione dei morti risponde, del resto, al deside¬rio più istintivo del cuore umano. Noi — dice Paolo — non vogliamo essere spogliati del nostro corpo, ma sopravvestiti, cioè non vogliamo sopravvivere con una parte sola del nostro essere — l’anima —, ma con tutto il nostro io, anima e corpo; perciò, non desideriamo che il nostro corpo mortale venga distrutto, ma che “venga assorbito dalla vita” e si vesta, esso stesso, di immortalità (cf. 2 Cor. 5, 1-5; 1 Cor. 15, 51-53).
Della vita eterna noi non abbiamo in questa vita soltanto una promessa: ne abbiamo anche “le primizie” e la “caparra”. Non bisognerebbe mai tradurre il termine greco arrabôn usato da san Paolo a proposito dello Spirito (2 Cor 1, 22; 5,5; Ef 1,14)) con “pegno” (pignus), ma solo con caparra (arra). Sant’Agostino ha spiegato bene la differenza. Il pegno, dice, non è l’inizio del pagamento, ma qualcosa che viene dato in attesa del pagamento; una volta effettuato il pagamento, il pegno viene restituito. Non così la caparra. Essa non viene restituita al momento del pagamento, ma completata. Fa parte già del pagamento. “Se Dio, attraverso il suo Spirito, ci ha dato come caparra l’amore, quando ci verrà data tutta la realtà, ci verrà forse tolta la caparra? No certo, ma quanto ha già dato lo completerà” .
Come “le primizie” annunciano il raccolto pieno e sono parte di esso, così la caparra è parte del pieno possesso dello Spirito. È lo “Spirito che abita in noi” (cf Rom 8,11), più che l’immortalità dell’anima, che assicura, come si vede, la continuità tra la nostra vita presente e quella futura.
Circa il modo della risurrezione, in quella stessa occasione Gesù afferma la condizione spirituale dei risorti: “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più mo¬rire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Si è tentato di illustrare il passaggio dalla condizione terrestre a quella di risorti con esempi tratti dalla natura: il seme da cui sboccia l’albero, la natura morta in inverno che risorge a primavera, il bruco che si trasforma in farfalla. Paolo si limita a dire: “Viene seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (1 Cor 15, 42- 44).
La verità è che tutto ciò che riguarda la nostra condizione nell’aldilà resta un mistero impenetrabile; non perché Dio abbia voluto tenercelo nascosto, ma perché, costretti come siamo, a pensare ogni cosa dentro le categorie del tempo e dello spazio, ci mancano gli strumenti per rappresentarcelo. L’eternità non è un’entità che esiste a parte e che si possa definire in se stessa, quasi fosse un tempo allungato all’infinito. Essa è il modo di essere di Dio. L’eternità è Dio! Entrare nella vita eterna significa semplicemente essere ammessi, per grazia, a condividere il modo di essere di Dio.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’eternità non fosse prima entrata nel tempo. È in Cristo risorto e grazie a lui che noi possiamo rivestire il modo di essere di Dio. San Paolo si rappresenta quello che lo aspetta dopo morte come un “andare a stare con Cristo” (Fil 1,23). La stessa cosa si deduce dalla parola di Gesú al buon ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23, 43). Il paradiso è un essere “con Cristo”, come suoi “coeredi”. La vita eterna è un ricongiunsi delle membra al capo, un fare “massa” con lui nella gloria, dopo essere stati uniti a lui nella sofferenza (Rom 8,17).
Un simpatica storia narrata da uno scrittore tedesco moderno ci aiuta a darci un senso della vita eterna più che tutti i tentativi di spiegazione razionale. In un monastero medievale vivevano due monaci legati tra loro da profonda amicizia spirituale. Uno si chiamava Rufus e l’altro Rufinus. In tutto il loro tempo libero non facevano che cercare di immaginare e descrivere come sarebbe stata la vita eterna nella Gerusalemme celeste. Rufus che era un capomastro se l’immaginava come una città con porte d’oro, tempestata di pietre preziose; Rufinus che era organista, come tutta risonante di celesti melodie.
Alla fine fecero un patto: quello di loro che sarebbe morto per primo sarebbe tornato la notte successiva, per assicurare l’amico che le cose stavano proprio come le avevano immaginate. Sarebbe bastata una parola. Se era come avevano pensato, avrebbe detto semplicemente: taliter!, cioè proprio così; se – ma la cosa era del tutto impossibile – fosse stato diversamente, avrebbe detto: aliter, diverso!
Una sera, mentre era all’organo, il cuore di Rufino si fermò. L’amico vegliò trepidante tutta la notte, ma niente; attese in veglie e digiuni per settimane e mesi, e niente. Finalmente, nell’anniversario della morte, ecco che di notte, in un alone di luce, entra nella sua cella l’amico. Vedendo che tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta affermativa: taliter? È così vero? Ma l’amico scuote il capo in segno negativo. Disperato, grida: aliter? È diverso? Di nuovo un segno negativo del capo. E finalmente dalle labbra chiuse dell’amico escono, come in un soffio, due parole: Totaliter aliter: Totalmente altro! È tutt’un’altra cosa! Rufus capisce in un lampo che il cielo è infinitamente di più di quello che avevano immaginato, che non si può descrivere, e di lì a poco muore anche lui, per il desiderio di raggiungerlo .
Il fatto, naturalmente, è una leggenda, ma il suo contenuto è quanto mai biblico. “Occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore di uomo ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (cf. 1 Cor 2, 9). San Simeone, il Nuovo Teologo, uno dei santi più amati nella Chiesa Ortodossa, ebbe un giorno una visione; era certo di aver contemplato Dio in persona e, sicuro che non ci potesse essere nulla di più grande e radioso di ciò che aveva visto, disse: ”Se il cielo non è che questo, mi basta!” Il Signore gli rispose: “Sei veramente ben meschino, se ti accontenti di questi beni, perché, in rapporto ai beni futuri, essi sono come un cielo dipinto su carta, in confronto al cielo vero” .
Quando si vuole attraversare un braccio di mare, diceva sant’Agostino, la cosa più importante non è starsene sulla riva e aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva. E anche per noi la cosa più importante non è speculare su come sarà la nostra vita eterna, ma fare le cose che sappiamo portano ad essa . Che la nostra giornata di oggi sia un piccolo passo verso di essa.
1.Tacito, Annali 25.
2.Martin Dibelius, Iesus, Berlino 1966, p. 117.
3.Charles H. Dodd, History and the Gospel, London 1964, p.76 (ed. Italiana Storia ed Evangelo, Brescia 1976, p. 87).
4.Cf. Søren Kierkegaard, Diario, X, 4, A, 523.
5.Cf. S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 120, 6 (CCL, 40, p 1791).
6.S. Agostino, Discorsi, 23, 9 (CC 41, p. 314).
7.H. Franck, Der Regenbogen. Siebenmalsieben Geschichten, Leipzig 1927.
8.S. Simeone Nuovo Teologo, Seconda preghiera di ringraziamento (SCh 113, p. 350).
9.Agostino, La Trinità IV,15,30; Confessioni, VII, 21.

giovedì 20 aprile 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della morte di Cristo

terza predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
24 marzo 2017


1. Lo Spirito Santo nel mistero pasquale di Cristo
Nelle due precedenti meditazioni abbiamo cercato di mostrare come lo Spirito Santo ci introduce alla “piena verità” sulla persona di Cristo, facendocelo conoscere come “Signore” e come “Dio vero da Dio vero”. Nelle rimanenti meditazioni la nostra attenzione, dalla persona, si sposta sull’operato di Cristo, dall’essere all’agire. Cercheremo di mostrare come lo Spirito Santo illumina il mistero pasquale, e in primo luogo, nella presente meditazione, il mistero della sua e della nostra morte.
Appena reso pubblico il programma di queste prediche di Quaresima, in una intervista per l’Osservatore Romano, mi è stata rivolta la domanda: “Quanto spazio per l’attualità ci sarà nelle sue meditazioni?” Ho risposto: se si intende “attualità” nel senso di riferimenti a situazioni o eventi in atto, temo che ci sia ben poco di attuale nelle prossime prediche di Quaresima. Ma, a mio parere, “attuale” non è solo “ciò che è in atto” e non è sinonimo di “recente”. Le cose più ”attuali” sono quelle eterne, cioè quelle che toccano le persone nel nucleo più intimo della propria esistenza, in ogni epoca e in ogni cultura. È la stessa distinzione che c’è tra “l’urgente” e “l’importante”. Noi siamo tentati sempre di anteporre l’urgente all’importante e di anteporre il “recente” all’”eterno”. È una tendenza che il ritmo incalzante della comunicazione e il bisogno di novità dei media rendono oggi particolarmente acuta.
Cosa c’è di più importante e attuale per il credente, e anzi per ogni uomo per ogni donna, che sapere se la vita ha un senso o no, se la morte è la fine di tutto o, al contrario, l’inizio della vera vita? Ora il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo è l’unica risposta a tali problemi. La differenza che c’è tra questa attualità e quella mediatica della cronaca è la stessa che c’è tra chi passa il tempo a guardare il disegno lasciato dall’onda sulla spiaggia (che l’onda successiva cancella!), e chi alza lo sguardo a contemplare il mare nella sua immensità.
Con questa consapevolezza meditiamo dunque sul mistero pasquale di Cristo, iniziando dalla sua morte di croce.
La Lettera agli Ebrei dice che Cristo “mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). “Spirito eterno” è un altro modo per dire Spirito Santo, come attesta già una variante antica del testo. Questo vuol dire che, come uomo, Gesú ricevette dallo Spirito Santo che era in lui l’impulso a offrirsi in sacrificio al Padre e la forza che lo sostenne durante la sua passione. La liturgia esprime questa stessa convinzione, quando, nella preghiera che precede la comunione, fa dire al sacerdote: “Signore Gesú Cristo, Figlio di Dio vivo, per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto) hai dato la vita al mondo”.
Avviene per il sacrificio come per la preghiera di Gesú. Un giorno Gesú “esultò nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21). Era lo Spirito Santo che suscitava in lui la preghiera ed era lo Spirito Santo che lo spingeva a offrirsi al Padre. Lo Spirito Santo che è il dono eterno che il Figlio fa di se stesso al Padre nell’eternità, è anche la forza che lo spinge a farsi dono sacrificale al Padre per noi nel tempo.
Il rapporto tra lo Spirito Santo e la morte di Gesú è messo in rilievo soprattutto nel vangelo di Giovanni. “Non c’era ancora lo Spirito – commenta l’evangelista a proposito della promessa dei fiumi di acqua viva – perché Gesú non era ancora stato glorificato” (Gv 7, 39), cioè, secondo il significato di questa parola in Giovanni, non era stato ancora elevato sulla croce. Dalla croce Gesú “emette lo spirito”, simboleggiato dall’acqua e dal sangue; scrive infatti nella Prima Lettera: “Tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue” (1 Gv 5, 7-8).
Lo Spirito Santo porta Gesú alla croce e dalla croce Gesú dona lo Spirito Santo. Al momento della nascita e poi, pubblicamente, nel suo battesimo, lo Spirito Santo è dato a Gesú; nel momento della morte Gesú da lo Spirito Santo: “Dopo aver ricevuto lo Spirito Santo promesso, egli lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire”, dice Pietro alle folle il giorno di Pentecoste (At 2, 33). I Padri della Chiesa amavano mettere in luce questa reciprocità. “Il Signore –scriveva sant’Ignazio d’Antiochia – ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata (myron), per spirare sulla Chiesa l’incorruttibilità” .
A questo punto dobbiamo richiamare alla mente l’osservazione di sant’Agostino circa la natura dei misteri di Cristo. Secondo lui, si ha una vera celebrazione a modo di mistero e non solo a modo di anniversario, quando “non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato per noi e lo si accolga santamente” . Ed è quello che vorremmo fare in questa meditazione, guidati dallo Spirito Santo: vedere cosa significa per noi la morte di Cristo, che cosa essa ha cambiato a proposito della nostra morte.
2. Uno è morto per tutti.
Il credo della Chiesa termina con le parole ”Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Non menziona quello che precederà la risurrezione e la vita eterna, e cioè la morte. Giustamente, perché la morte non è oggetto di fede, ma di esperienza. La morte però ci riguarda troppo da vicino per passarla sotto silenzio.
Per poter valutare il cambiamento operato da Cristo nei confronti della morte, vediamo quali furono i rimedi tentati dagli uomini al problema della morte, anche perché essi sono quelli con cui anche oggi l’uomo cerca di “consolarsi”. La morte è il problema umano numero uno. Sant’Agostino anticipa la riflessione filosofica moderna sulla morte.
“Quando nasce un uomo – scrive – si fanno tante ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo, forse no… Ma di nessuno si dice: forse morirà o forse non morirà. Questa è l’unica cosa assolutamente certa della vita. Quando sappiamo che uno è malato di idropisia (allora era questa la malattia incurabile, oggi sono altre) diciamo: “Poveretto, deve morire; è condannato, non c’è rimedio”. Ma non dovremmo dire lo stesso di uno che nasce? “Poveretto, deve morire, non c’è rimedio, è condannato!”. Che differenza fa se in un tempo un po’ più lungo, o un po’ più breve? La morte è la malattia mortale che si contrae nascendo” .
Forse più che una vita mortale, la nostra è da considerarsi una “morte vitale”, un vivere morendo. Questo pensiero di Agostino è stato ripreso, in chiave secolarizzata, da Martin Heidegger che ha fatto entrare la morte a pieno diritto nell’oggetto della filosofia. Definendo la vita e l’uomo “un-essere-per-la-morte”, egli fa della morte non un incidente che pone fine alla vita, ma la sostanza stessa della vita, ciò di cui essa è tessuta. Vivere è morire. Ogni istante che viviamo è qualcosa che viene bruciato, sottratto alla vita e consegnato alla morte . “Vivere-per-la-morte” significa che la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita. Si nasce per morire, non per altro. Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla. Il nulla è l’unica possibilità dell’uomo.
È il più radicale rovesciamento della visione cristiana, secondo cui l’uomo è un “essere-per- l’eternità”. Tuttavia, l’affermazione cui è approdata la filosofia dopo la sua lunga riflessione sull’uomo non è né scandalosa né assurda. Semplicemente, la filosofia fa il suo mestiere; mostra quale sarebbe il destino umano lasciato a se stesso. Aiuta a comprendere la differenza che fa la fede in Cristo.
Più che la filosofia sono forse i poeti a dire le parole di sapienza più semplici e più vere sulla morte. 
Uno di essi, Giuseppe Ungaretti, parlando dello stato d’animo dei soldati in trincea nella Grande Guerra, ha descritto la situazione di ogni uomo di fronte al mistero della morte: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
La stessa Scrittura dell’Antico Testamento non ha una risposta chiara sulla morte. Di questa si parla nei libri sapienziali ma sempre in chiave di domanda, più che di risposta. Giobbe, i Salmi, il Qoelet, il Siracide, la Sapienza: tutti questi libri dedicano un’attenzione notevole al tema della morte. “Insegnaci a contare i nostri giorni – dice un salmo – e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90, 12). Perché si nasce? Perché si muore? Dove si va dopo morti? Sono tutte domande che per il saggio dell’Antico Testamento restano senza altra risposta che questa: Dio vuole così; su tutto ci sarà un giudizio.
La Bibbia ci riferisce le opinioni inquietanti degli increduli del tempo: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Non c’è ritorno dalla morte… Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati” (Sap 2, 1 ss). Soltanto in questo libro della Sapienza, che è il più recente dei libri sapienziali, la morte comincia a essere rischiarata dall’idea di una retribuzione ultraterrena. Le anime dei giusti, si pensa, sono nelle mani di Dio, anche se non si sa cosa questo vuole dire precisamente (cf Sap 3, 1). È vero che in un salmo si legge: “Preziosa è al cospetto del Signore la morte dei suoi fedeli” (Sal 116, 15). Ma non possiamo appoggiarci troppo su questo versetto tanto sfruttato, perché il significato della frase sembra essere un altro: Dio fa pagare cara la morte dei suoi fedeli; cioè ne è il vindice, ne chiede conto.
Come ha reagito l’uomo a questa dura necessità? Un modo sbrigativo è stato quello di non pensarci, distrarsi. Per Epicuro, per esempio, la morte è un falso problema: “Quando ci sono io – diceva – non c’è ancora la morte; quando c’è la morte non ci sono più io”. Essa dunque non ci riguarda. A questa logica di esorcizzare la morte rispondono anche le leggi napoleoniche che spostavano i cimiteri fuori dell’abitato.
Ci si è appigliati anche a rimedi positivi. Il più universale si chiama la prole, sopravvivere nei figli; un altro, sopravvivere nella fama: “Non morirò del tutto (“non omnis moriar”) – diceva il poeta latino –, perché resteranno di me i miei scritti, la mia fama”. “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo” . Per il marxismo l’uomo sopravvive nella società del futuro, non come individuo, ma come specie.
Un altro di questi rimedi palliativi è la reincarnazione. Ma è una stoltezza. Coloro che professano questa dottrina come parte integrante della loro cultura e religione, cioè coloro che sanno veramente che cos’è la reincarnazione, sanno anche che essa non è un rimedio e una consolazione, ma una punizione. Non è una proroga concessa al godimento, ma alla purificazione. L’anima si reincarna perché ha ancora qualcosa da espiare, e se deve espiare, dovrà soffrire. La parola di Dio tronca tutte queste vie di fuga illusorie: “È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio” (Eb 9, 27). Una sola volta! La dottrina della reincarnazione è incompatibile con la fede dei cristiani.
Ai nostri giorni si è andati oltre. Esiste un movimento a livello mondiale chiamato “transumanesimo”. Esso ha molte facce, non tutte negative, ma il suo nucleo comune è la convinzione che la specie umana, grazie ai progressi della tecnologia, è ormai incamminata a un radicale superamento di se stessa, fino a vivere per secoli e forse per sempre! Secondo uno dei suoi più noti rappresentanti, Zoltan Istvan, il traguardo finale sarà “diventare come Dio e vincere la morte”. Un credente ebreo o cristiano non può non pensare immediatamente alle parole quasi identiche pronunciate all’inizio della storia umana: “Non morirete affatto, anzi sarete come Dio” (cf Gen 3,4-5), con il risultato che conosciamo.
3. La morte è stata inghiottita dalla vittoria
Esiste un solo, vero rimedio alla morte e noi cristiani defraudiamo il mondo se non lo proclamiamo con la parola e la vita. Sentiamo come l’Apostolo Paolo annuncia al mondo questo cambiamento:
“Se per la caduta di uno solo, molti sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati abbondantemente su molti […]. Infatti, se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” (Rom 5, 12-17).
Con maggiore lirismo, il trionfo di Cristo sulla morte è descritto nella Prima Lettera ai Corinti:
“La morte è stata sommersa nella vittoria”. “O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?” Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” (1 Cor 15, 54-57).
Il fattore decisivo è collocato al momento della morte di Cristo: “Egli è morto per tutti” ( 2 Cor 5,15). Ma cosa è avvenuto di tanto decisivo in quel momento da cambiare il volto stesso della morte? Possiamo rappresentarcelo visivamente così. Il Figlio di Dio è sceso nella tomba, come in una prigione oscura, ma ne è uscito dalla parete opposta. Non è tornato indietro per dove era entrato, come Lazzaro che deve però tornare a morire. No, egli ha aperto una breccia sul versante opposto per la quale tutti quelli che credono in lui possono seguirlo.
Scrive un antico Padre: “Egli prese su di sé le sofferenze dell’uomo sofferente mediante il suo corpo capace di soffrire, ma con lo Spirito che non poteva morire, Cristo ha ucciso la morte che uccideva l’uomo”. E sant’Agostino: “Attraverso la passione Cristo passa dalla morte alla vita e apre così a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita” . La morte è diventata un passaggio e un passaggio a ciò che non passa! Dice bene il Crisostomo:
“È vero, noi moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il potere e la forza reale della morte è soltanto questo: che un morto non ha alcuna possibilità di ritornare alla vita. Ma se dopo la morte egli riceve di nuovo la vita e, anzi, gli è data una vita migliore, allora questa non è più morte, ma un sonno”.
Tutti questi modi di spiegare il senso della morte di Cristo sono veri, ma non ci danno la spiegazione più profonda. Questa va cercata in quello che, con la sua morte, Gesú è venuto a mettere nella condizione umana, più che in ciò che è venuto a togliere; va cercata nell’amore di Dio, non nel peccato dell’uomo. Se Gesú soffre e muore di una morte violenta inflittagli per odio, non lo fa solo per pagare al posto degli uomini il loro insolvibile debito (il debito di diecimila talenti, nella parabola, viene condonato dal re!); muore crocifisso perché la sofferenza e la morte degli esseri umani siano abitate dall’amore!
L’uomo si era condannato da solo a una morte assurda ed ecco che entrando in questa morte egli scopre ormai che essa è permeata dell’amore di Dio. L’amore non ha potuto fare a meno della morte, a causa della libertà dell’essere umano: l’amore di Dio non può eliminare con un colpo di bacchetta magica la tragica realtà del male e della morte. Il suo amore è costretto a lasciare che la sofferenza e la morte dicano la loro parola. Ma poiché l’amore è penetrato nella morte e l’ha riempita della divina presenza, è l’amore ormai a dire l’ultima parola..
4. Che cosa è cambiato della morte
Che cosa dunque è cambiato, con Gesú, riguardo alla morte? Nulla e tutto! Nulla per la ragione, tutto per la fede. Non è cambiata la necessità di entrare nella tomba, ma viene data la possibilità di uscirne. È quello che illustra con potenza l’icona ortodossa della risurrezione, di cui vediamo una interpretazione moderna nella parete di sinistra di questa cappella. Il Risorto scende negli inferi e trascina fuori con sé Adamo ed Eva e dietro di loro tutti quelli che si aggrappano a lui, negli inferi di questo mondo.
Questo spiega l’atteggiamento paradossale del credente di fronte alla morte, così simile a quello di tutti gli altri e così diverso. Un atteggiamento fatto di tristezza, paura, orrore, perché sa di doversi calare in quell’abisso oscuro; ma anche di speranza perché sa di poterne uscire. “Se ci rattrista la certezza di dover morire –dice il prefazio dei defunti – ci consola la speranza dell’immortalità futura”. Ai fedeli di Tessalonica, afflitti dalla morte di alcuni di loro, S. Paolo scriveva:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati” ( 1 Tess 4, 13-14).
Non chiede loro di non essere afflitti per la morte, ma di non esserlo “come gli altri”, come i non credenti. La morte non è per il credente la fine della vita, ma l’inizio di quella vera; non è un salto nel vuoto, ma un salto nell’eternità. Essa è una nascita ed è un battesimo. È una nascita, perché solo allora comincia la vita vera, quella che non va verso la morte, ma dura per sempre. Per questo la Chiesa non celebra la festa dei santi nel giorno della loro nascita terrena, ma in quello della loro nascita al cielo, il loro “dies natalis”. Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi” .
La morte è anche un battesimo. Così designa Gesú la sua stessa morte: “C’è un battesimo con cui devo essere battezzato”(Lc 12,50). San Paolo parla del battesimo come di un essere “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,4). Anticamente, al momento del battesimo la persona veniva calata interamente nell’acqua; tutti i peccati e tutto l’uomo vecchio restavano sepolti nell’acqua e ne usciva una creatura nuova, simboleggiata dalla tunica bianca di cui veniva rivestito. Così succede nella morte: muore il bruco, nasce la farfalla. Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4). Tutto sepolto per sempre.
Per diversi secoli, specialmente dal Seicento in poi, un aspetto importante dell’ascesi cattolica consisteva nell’”apparecchio alla morte”, cioè nel meditare sulla morte, descrivendone visivamente i diversi stadi e il suo inesorabile avanzare dalla periferia del corpo fino al cuore. Quasi tutte le immagini dei santi dipinte in questo periodo li mostrano con un teschio accanto, anche Francesco d’Assisi che pure aveva chiamato la morte “sorella”.
Una delle attrazioni turistiche di Roma è ancora il cimitero dei Cappuccini di via Veneto. Non si può negare che tutto questo possa costituire un richiamo ancora utile per un’epoca così secolarizzata e spensierata come la nostra; soprattutto se si legge come un ammonimento rivolto a chi guarda la scritta che campeggia sopra uno degli scheletri: “Quello che tu sei, io fui; quello che io sono, tu sarai”.
Tutto questo ha dato a qualcuno il pretesto di dire che il cristianesimo si fa strada con la paura della morte. Ma è un errore terribile. Il cristianesimo, abbiamo visto, non è fatto per aumentare la paura della morte, ma per toglierla; Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, è venuto “per liberare quelli che, per paura della morte, erano tenuti soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Il cristianesimo non si fa strada con il pensiero della nostra morte, ma con il pensiero della morte di Cristo!
Per questo, più efficace che meditare sulla nostra morte, è meditare sulla passione e la morte di Gesú e dobbiamo dire, ad onore delle generazioni che ci hanno preceduto, che tale meditazione era anch’essa pane quotidiano nella spiritualità dei secoli ricordati. Essa è una meditazione che suscita commozione e gratitudine, non angoscia; ci fa esclamare, come all’apostolo Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20).
Un “pio esercizio” che mi sentirei di raccomandare a tutti durante la Quaresima è quello di prendere in mano un Vangelo e leggere per conto proprio, con calma e per intero, il racconto della passione. Basta meno di mezz’ora. Ho conosciuto una donna intellettuale che si professava atea. Un giorno le cade addosso una di quelle notizie che lasciano tramortite: sua figlia di sedici anni ha un tumore alle ossa. La operano. La ragazza torna dalla sala operatoria martoriata, con tubi, sondini e flebo da tutte le parti. Soffre terribilmente, geme e non vuole sentire nessuna parola di conforto.
La mamma, sapendola pia e religiosa, pensando di farle piacere, le dice: “Vuoi che ti legga qualcosa del Vangelo?”. “Sì, mamma!”. “Che cosa?”. “Leggimi la passione”. Lei, che non aveva mai letto un Vangelo, corre a comprarne uno dai cappellani; si siede accanto al letto e comincia a leggere. Dopo un po’ la figlia si addormenta, ma lei continua, nella penombra, a leggere in silenzio fino alla fine. “La figlia si addormentava – dirà lei stessa nel libro scritto dopo la morte della figlia –, e la mamma si risvegliava!”. Si risvegliava dal suo ateismo. La lettura della passione di Cristo le aveva cambiato per sempre la vita .
Terminiamo con la semplice ma pregnante preghiera della liturgia: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”. “Ti adoriamo e ti benediciamo, Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.
1.S. Ignazio d’Antiochia, Lettera agli Efesini, 17.
2.S. Agostino, Epistola 55,1,2 (CSEL, 34,1, p.170).
3.Cf. S. Agostino, Sermo Guelf. 12, 3 (Misc. Ag. I, p. 482 s.).
4.S. Agostino, Confessioni I, 6, 7.
5.Cf. M. Heidegger, Essere e Tempo, § 51, Longanesi, Milano 1976, p. 308 s.
6.Orazio, Odi, III, 30,1.6.
7.Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 66 (SCh 123, p. 96).
8.S. Agostino, Commento ai Salmi, 120,6)
9.S. Giovanni Crisostomo, In Haebr, hom. 17,2 (PG 63, 129).
10.N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 1-2, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1971, 65-67.
11.Cf. Rosanna Garofalo, Sopra le ali dell’aquila, Ancora, Milano 1993.

sabato 8 aprile 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della divinità di Cristo

seconda predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
17 marzo 2017

1. La fede di Nicea

Proseguiamo, in questa meditazione, la riflessione sul ruolo dello Spirito Santo nella conoscenza di Cristo. A questo proposito non si può tacere una riprova in atto oggi nel mondo. Esiste da tempo un movimento chiamato degli “Ebrei messianici”, cioè degli Ebrei-cristiani. (“Cristo” e “cristiano” non sono che la traduzione greca dell’ebraico Messia e messianico!). Una stima per difetto parla di 150 mila aderenti, distinti in gruppi e associazioni diverse tra loro, diffusi soprattutto negli stati Uniti, in Israele e in varie nazioni europee.
Sono ebrei che credono che Gesú, Yeshua, è il Messia promesso, il Salvatore e il Figlio di Dio, ma non vogliono assolutamente rinunciare alla loro identità e tradizione ebraica. Non aderiscono ufficialmente a nessuna delle Chiese cristiane tradizionali, perché intendono ricollegarsi e far rivivere la primitiva Chiesa dei giudeo-cristiani, la cui esperienza fu interrotta bruscamente da noti eventi traumatici.
La Chiesa cattolica e le altre Chiese si sono sempre astenute dal promuovere, e perfino nominare, questo movimento per ovvie ragioni di dialogo con l’ebraismo ufficiale. Io stesso non ne ho mai parlato. Ma ora si sta facendo strada la convinzione che non è giusto continuare a ignorarli o, peggio, ostracizzarli da una parte e dell’altra. È uscito da poco in Germania uno studio di diversi teologi sul fenomeno . Se ne parlo in questa sede è per un motivo preciso, attinente al tema di queste meditazioni. A una inchiesta sui fattori e le circostanze che sono state all’origine della loro fede in Gesú, più del 60% degli interessati ha risposto: “una trasformazione interiore ad opera dello Spirito Santo”; al secondo posto c’è la lettura della Bibbia e al terzo, contatti personali . È una conferma dalla vita che lo Spirito Santo è colui che da la vera, intima conoscenza di Cristo.
Riprendiamo dunque il filo delle nostre considerazioni storiche. Finché la fede cristiana rimase ristretta all’ambito biblico e giudaico, la proclamazione di Gesù come Signore (“Credo in un solo Signore Gesú Cristo”), soddisfaceva tutte le esigenze della fede cristiana e giustificava il culto di Gesù “come Dio”. Signore, Adonai, era infatti per Israele un titolo inequivocabile; esso appartiene esclusivamente a Dio. Chiamare Gesú Signore, equivale perciò a proclamarlo Dio. Abbiamo una prova inconfutabile del ruolo svolto dal titolo Kyrios all’inizio della Chiesa come espressione del culto divino attribuito a Cristo. Nella sua versione aramaica Maran-atha (Il Signore viene), o Marana-tha (Vieni, Signore!), esso appare già in san Paolo come formula liturgica (1 Cor 16, 22) ed è una delle poche parole conservate nella lingua della primitiva comunità .
Non appena però il cristianesimo si affacciò sul mondo greco romano circostante, il titolo di Signore, Kyrios, non bastava più. Il mondo pagano conosceva molti e diversi “signori”, primo fra tutti, appunto, l’imperatore romano. Occorreva trovare un altro modo per garantire la piena fede in Cristo e il suo culto divino. La crisi ariana ne offrì l’occasione.
Questo ci introduce alla seconda parte dell’articolo su Gesù, quella che fu aggiunta al simbolo di fede nel concilio di Nicea del 325:
“nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza (homoousios) del Padre”.
Il vescovo di Alessandria, Atanasio, campione indiscusso della fede nicena, è ben convinto di non essere lui, né la Chiesa del suo tempo, a scoprire la divinità di Cristo. Tutta la sua opera consisterà, al contrario, nel mostrare che questa è stata sempre la fede della Chiesa; che nuova non è la verità, ma l’eresia contraria. La sua convinzione a questo riguardo trova una conferma storica indiscussa nella lettera che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, scrisse all’imperatore Traiano intorno all’anno 111 d.C. L’unica notizia certa che egli dice di possedere nei confronti dei cristiani è che “sono soliti radunarsi prima dell’alba, in un giorno stabilito della settimana, e inneggiare a Cristo come a Dio” (“carmenque Christo quasi Deo dicere”)
La fede nella divinità di Cristo esisteva dunque già ed è solo ignorando completamente la storia che qualcuno ha potuto affermare che la divinità di Cristo è un dogma voluto e imposto dall’imperatore Costantino nel concilio di Nicea. L’apporto dei Padri di Nicea e in particolare di Atanasio, fu, più che altro, quello di rimuovere gli ostacoli che avevano impedito fino allora un riconoscimento pieno e senza reticenze della divinità di Cristo nelle discussioni teologiche.
Uno di tali ostacoli era l’abitudine greca di definire l’essenza divina con il termine agennetos, ingenerato. Come proclamare che il Verbo è vero Dio, dal momento che esso è Figlio, cioè generato dal Padre? Era facile per Ario stabilire l’equivalenza: generato, uguale fatto, cioè passare gennetos a genetos, e concludere con la celebre frase che fece esplodere il caso: “Ci fu un tempo in cui non c’era!” (en ote ouk en). Questo equivaleva a fare di Cristo una creatura, anche se non “come le altre creature”. Atanasio risolve la controversia con una osservazione elementare: “Il termine agenetos fu inventato dai greci perché non conoscevano ancora il Figlio” e difese a spada tratta l’espressione “generato, ma non fatto”, genitus non factus, di Nicea,
Un altro ostacolo culturale al pieno riconoscimento della divinità di Cristo, sul quale Ario poteva appoggiare la sua tesi, era la dottrina di una divinità intermedia, il deuteros theos, preposto alla creazione del mondo. Da Platone in poi, essa era diventata un dato comune a molti sistemi religiosi e filosofici dell’antichità. La tentazione di assimilare il Figlio, “per mezzo del quale erano state create tutte le cose”, a questa entità intermedia era rimasta strisciante nella speculazione cristiana (Apologisti, Origene), anche se estranea alla vita interna della Chiesa. Ne risultava uno schema tripartito dell’essere: al vertice, il Padre ingenerato; dopo di lui, il Figlio (e più tardi anche lo Spirito Santo); al terzo posto, le creature.
La definizione del “genitus non factus” e dell’homoousios , rimuove questo ostacolo e opera la catarsi cristiana dell’universo metafisico dei greci. Con tale definizione, una sola linea di demarcazione è tracciata sulla verticale dell’essere. Esistono due soli modi di essere: quello del creatore e quello delle creature e il Figlio si colloca dalla parte del primo, non delle seconde.
Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell’accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura.
È importante sapere cosa motiva Atanasio e gli altri teologi ortodossi nella battaglia, da dove, cioè, viene loro una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, fa della salvezza in Cristo Gesú.
L’argomento soteriologico non nasce con la controversia ariana; esso è presente in tutte le grandi controversie cristologiche antiche, da quella antignostica a quella antimonotelita. Nella sua formulazione classica esso suona così: “Ciò che non è assunto non è salvato” (“Quod non est assumptum non est sanatum”) . Nell’uso che ne fa Atanasio, esso può essere così inteso: “Ciò che non è assunto da Dio non è salvato”, dove la forza è tutta in quella breve aggiunta “da Dio”. La salvezza esige che l’uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio stesso: “Se il Figlio è una creatura – scrive Atanasio – l’uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio”, e ancora: “L’uomo non sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre” .
Occorre tuttavia fare una precisazione importante. La divinità di Cristo non è un “postulato” pratico, come è, per Kant, l’esistenza stessa di Dio . Non è un postulato, ma la spiegazione di un dato di fatto. Sarebbe un postulato – e dunque una deduzione teologica umana – se si partisse da una certa idea di salvezza e da essa si deducesse la divinità di Cristo come l’unica capace di operare tale salvezza; è invece la spiegazione di un dato se si parte, come fa Atanasio, da una esperienza di salvezza e si dimostra come essa non potrebbe esistere se Cristo non fosse Dio. In altre parole, non è sulla salvezza che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla divinità di Cristo che si fonda la salvezza.
2. “Voi, chi dite che io sia?”

Ma è tempo di venire a noi e cercare di vedere cosa possiamo imparare oggi dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo dall’ortodossia. La divinità di Cristo è la pietra angolare che sorregge i due misteri principali della fede cristiana; la Trinità e l’incarnazione. Essi sono come due porte che si aprono e si chiudono insieme. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Tale è l’edificio della fede cristiana, e questa sua pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e prima di ogni altra cosa la Trinità. Se il Figlio non è Dio, da chi è formata la Trinità? Lo aveva già denunciato con chiarezza sant’ Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
“Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da tutta l’eternità, allora non esiste una Trinità eterna, ma prima ci fu l’unità e poi, con il passare del tempo, per aggiunta, ha cominciato ad esserci la Trinità” .
Sant’ Agostino diceva: “ Non è gran cosa credere che Gesù è morto; questo lo credono anche i pagani, anche i giudei e i reprobi; tutti lo credono. Ma è cosa veramente grande credere che egli è risorto. La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo” . La stessa cosa, oltre che della morte e risurrezione, si deve dire dell’umanità e divinità di Cristo, di cui morte e risurrezione sono le rispettive manifestazioni. Tutti credono che Gesù sia uomo; ciò che fa la diversità fra credenti e non credenti è credere che egli sia Dio. La fede dei cristiani è la divinità di Cristo!
Dobbiamo porci una domanda seria. Che posto occupa Gesù Cristo nella nostra società e nella stessa fede dei cristiani? Penso si possa parlare, a questo riguardo, di una presenza-assenza di Cristo. A un certo livello – quello dello spettacolo e dei mass-media in generale – Gesù Cristo è molto presente. In una serie interminabile di racconti, film e libri, gli scrittori manipolano la figura di Cristo, a volte sotto pretesto di fantomatici nuovi documenti storici su di lui. È diventato ormai una moda, un genere letterario. Si specula sulla vasta risonanza che ha il nome di Gesú e su quello che egli rappresenta per larga parte dell’umanità, per assicurarsi larga pubblicità a basso costo. Io chiamo tutto questo parassitismo letterario.
Da un certo punto di vista possiamo dunque dire che Gesù Cristo è molto presente nella nostra cultura. Ma se guardiamo all’ambito della fede, al quale egli in primo luogo appartiene, notiamo, al contrario, una inquietante assenza, se non addirittura rifiuto della sua persona. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono “credenti” in Europa e altrove? Credono, il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore; credono che esiste un “aldilà”. Questa però è una fede deistica, non ancora una fede cristiana. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana. Gesù Cristo è in pratica assente in questo tipo di religiosità.
Anche il dialogo tra scienza e fede porta, senza volerlo, a una messa tra parentesi di Cristo. Esso ha infatti per oggetto Dio, il Creatore. La persona storica di Gesú di Nazareth non vi ha alcun posto. Succede lo stesso anche nel dialogo con la filosofia che ama occuparsi di concetti metafisici, e non di realtà storiche, per non parlare del dialogo interreligioso in cui si discute di pace, ecologismo, ma certo non di Gesù.
Basta un semplice sguardo al Nuovo Testamento per capire quanto siamo lontani, in questo caso, dal significato originale della parola “fede” nel Nuovo Testamento. Per Paolo, la fede che giustifica i peccatori e conferisce lo Spirito Santo (Gal 3,2), in altre parole, la fede che salva, è la fede in Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione.
Già durante la vita terrena di Gesù, la parola fede indica fede in lui. Quando Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, quando rimprovera gli apostoli chiamandoli “uomini di poca fede”, non si riferisce alla fede generica in Dio che era scontata tra ebrei; parla di fede in lui! Questo smentisce da solo la tesi secondo cui la fede in Cristo comincia solo con la Pasqua e prima c’è solo il “Gesù della storia”. Il Gesù della storia è già uno che postula fede in lui e se i discepoli l’hanno seguito è proprio perché avevano una certa fede in lui, anche se tanto imperfetta prima della venuta dello Spirito Santo a Pentecoste.
Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso dunque dalla domanda che Gesú rivolse un giorno ai suoi discepoli, dopo che questi gli hanno riferito le opinione della gente introno a lui: “Ma voi, chi credete che io sia?”, e da quella ancora più personale: “Credi tu?” Credi veramente? Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). “È dalle radici del cuore che sale la fede”, esclama sant’Agostino .
In passato, il secondo momento di questo processo – cioè la professione della retta fede, l’ortodossia – ha preso a volte tanto rilievo da lasciare nell’ombra quel primo momento che è il più importante e che si svolge nelle profondità recondite del cuore. Quasi tutti i trattati “Sulla fede” (De fide) scritti nell’antichità, si occupano delle cose da credere, e non dell’atto del credere.
3. Chi è che vince il mondo 

Dobbiamo ricreare le condizioni per una fede nella divinità di Cristo senza riserve e senza reticenze. Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque la formula di fede. Il corpo della Chiesa ha prodotto una volta uno sforzo supremo, con cui si è elevato, nella fede, al di sopra di tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze della ragione. In seguito, è rimasto il frutto di questo sforzo. La marea si è sollevata una volta a un livello massimo e ne è rimasto il segno sulla roccia. Questo segno è la definizione di Nicea che proclamiamo nel credo. Bisogna però che si ripeta la sollevazione, non basta il segno. Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c'è stato più l'eguale nei secoli. Di esso c'è nuovamente bisogno.
Ce n’è bisogno anzitutto in vista di una nuova evangelizzazione. San Giovanni, nella sua Prima Lettera, scrive: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? (1 Gv 5,4-5). Dobbiamo capire bene cosa vuol dire “vincere il mondo”. Non vuol dire riscuotere più successo, dominare sulla scena politica e culturale. Questo sarebbe piuttosto l’opposto: non vincere il mondo, ma mondanizzarsi. Purtroppo non sono mancate epoche in cui si è caduti, senza rendersene conto, in questo equivoco. Si pensi alle teorie delle due spade o del triplice regno del sovrano pontefice, anche se dobbiamo sempre stare attenti a non giudicare il passato con i criteri e le certezze del presente. Dal punto di vista temporale, avviene piuttosto il contrario, e Gesú lo dichiara in anticipo ai suoi discepoli: “Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
È escluso dunque ogni trionfalismo. Si tratta di una vittoria di ben altro tipo: di una vittoria su quello che anche il mondo odia e non accetta di se stesso: la temporalità, la caducità, il male, la morte. Questo, infatti, è ciò che significa, nella sua accezione negativa, la parola “mondo” (kosmos) nel Vangelo. È in questo senso che Gesú dice: “Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33).
Come ha vinto il mondo Gesú? Non certo sbaragliando i nemici con “dieci legioni di angeli”, ma piuttosto, come dice Paolo “vincendo l’inimicizia” (cf. Ef 2, 16), vale a dire tutto ciò che separa l’uomo da Dio, l’uomo dall’uomo, un popolo da un altro popolo. Perché non ci fossero dubbi sulla natura di questa vittoria sul mondo, essa viene inaugurata con un trionfo tutto speciale, quello della croce.
Gesú ha detto: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Sono le parole più spesso riprodotte nella pagina del libro che il Pantocrator tiene aperto tra le mani nei mosaici antichi, come in quello famoso della cattedrale di Cefalù. Di lui l’evangelista afferma: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Luce e vita, Phos e Zoè: queste due parole hanno in greco la lettera centrale (un omega) in comune e spesso si trovano incrociate, scritte una orizzontalmente e l’altra verticalmente, a formare un potente e diffusissimo monogramma di Cristo.
Che cosa desidera maggiormente l’uomo se non queste due cose: luce e vita? Di un grande spirito moderno, Goethe, si sa che morì mormorando: “Più luce!”. Forse egli si riferiva alla luce naturale che voleva entrasse in misura maggiore nella sua stanza, ma alla frase è stato sempre attribuito, giustamente, un significato anche metaforico e spirituale. Un mio amico che è tornato alla fede in Cristo dopo aver attraversato tutte le esperienze religiose possibili e immaginabili, ha raccontato la sua vicenda in un libro intitolato “Mendicante di luce”. Il momento cruciale fu quando, nel bel mezzo di una sua meditazione profonda, sentì rimbombare nella sua mente, senza che potesse farle tacere, le parole di Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita” . Sulla falsariga di quello che l’apostolo Paolo disse agli ateniesi nell’Areopago, noi siamo chiamati a dire con tutta umiltà al mondo d’oggi: “Quello che voi cercate, andando come a tentoni, noi ve lo annunciamo” (cf. Atti 17, 23.27).
“Datemi un punto di appoggio - avrebbe esclamato l’inventore della leva, Archimede – e io vi solleverò il mondo”. Chi crede nella divinità di Cristo è uno che ha trovato questo punto di appoggio. “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,25).
4. “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”

Non possiamo però terminare la nostra riflessione senza raccogliere anche l’appello che essa contiene, non solo in vista dell’evangelizzazione ma anche della nostra vita e testimonianza personale. 

Nel dramma di Claudel “Il padre umiliato”, ambientato a Roma al tempo del beato Pio IX, c’è una scena molto suggestiva. Una fanciulla ebrea, bellissima ma cieca, passeggia di sera nel giardino di una villa romana con il nipote del papa Orian innamorato di lei. Giocando sul duplice significato della luce, quello fisico e quello della fede, a un certo punto, “a voce bassa e con ardore”, ella dice all’amico cristiano:
“Ma voi che ci vedete, che cosa ne fate voi della luce? […]
Voi che dite di vivere, cosa ne fate della vita?” .
È una domanda che non possiamo lasciar cadere nel vuoto: che cosa ne facciamo noi cristiani della nostra fede in Cristo? Anzi, che cosa ne faccio io della mia fede in Cristo? Gesú un giorno disse ai suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23; Mt 13,16). È una di quelle affermazioni con cui Gesú, in più occasioni, cerca di aiutare i suoi discepoli a scoprire da soli la sua vera identità, non potendo rivelarla in modo diretto a causa della loro impreparazione ad accoglierla.
Noi sappiamo che le parole di Gesù sono parole che “non passeranno mai” (Mt 24, 35), sono, cioè parole vive, rivolte a chiunque le ascolta con fede, in ogni momento e luogo della storia. È a noi perciò che egli dice, ora e qui: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”. Se non abbiamo mai riflettuto seriamente su quanto siamo fortunati noi che crediamo in Cristo, forse è l’occasione per farlo.
Perché “beati”, se i cristiani non hanno certo più motivo degli altri di rallegrarsi in questo mondo e anzi in molte regioni della terra sono continuamente esposti alla morte, proprio per la loro fede in Cristo? La risposta ce la da lui stesso: “Perché vedete!”. Perché conoscete il senso della vita e della morte, perché “vostro è il regno dei cieli”. Non nel senso di “vostro e di nessun altro” (sappiamo che il regno dei cieli, nella sua prospettiva escatologica, si estende ben oltre i confini della Chiesa); “vostro” nel senso che voi ne siete già parte, ne gustate le primizie. Voi avete me!
La frase più bella che una sposa può dire allo sposo e viceversa, è: “Mi hai reso felice!” Gesú merita che la sua sposa, la Chiesa, glielo dica dal profondo del cuore. Io glielo dico e invito voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, a fare altrettanto. Oggi stesso, per non dimenticarcelo.


1. Ulrich Laepple (ed.), Messianische Juden. Eine Provokation, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2016.
2.Laepple, cit., p. 34.
3. Cf. Didachè, X, 6; in Ap 22, 20, l’esclamazione: „Vieni, Signore Gesù“ è la traduzione dei Marana-tha.
4.Plinio il Giovane, Relatio de Christianis ad Traianum, Epistulae X, 96 (in C. Kirch, Enchiridion Fontium Historiae Ecclesiasticae Antiquae, Herder 1965, p. 23).
5.S. Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31.
6.S. Gregorio Nazianzeno, Lettera Cledonio (PG 37, 181).
7.S. Atanasio, Contra Arianos, II, 69 e I, 70.
8.I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III, VI
9.S. Atanasio, Contra Arianos I, 17-18 (PG 26, 48).
10.S. Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40, p. 1791).
11.S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
12.Masterbee, Mendicante di luce. Dal Tibet al Gange e oltre, San Paolo, Cinisello B. 2006, pp. 223 ss.
13. Paul Claudel, Le père humilié, atto I, sc. 3 (Paul Claudel, Le théatre, Paris Gallimard 1956, p.506).