giovedì 20 aprile 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della morte di Cristo

terza predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
24 marzo 2017


1. Lo Spirito Santo nel mistero pasquale di Cristo
Nelle due precedenti meditazioni abbiamo cercato di mostrare come lo Spirito Santo ci introduce alla “piena verità” sulla persona di Cristo, facendocelo conoscere come “Signore” e come “Dio vero da Dio vero”. Nelle rimanenti meditazioni la nostra attenzione, dalla persona, si sposta sull’operato di Cristo, dall’essere all’agire. Cercheremo di mostrare come lo Spirito Santo illumina il mistero pasquale, e in primo luogo, nella presente meditazione, il mistero della sua e della nostra morte.
Appena reso pubblico il programma di queste prediche di Quaresima, in una intervista per l’Osservatore Romano, mi è stata rivolta la domanda: “Quanto spazio per l’attualità ci sarà nelle sue meditazioni?” Ho risposto: se si intende “attualità” nel senso di riferimenti a situazioni o eventi in atto, temo che ci sia ben poco di attuale nelle prossime prediche di Quaresima. Ma, a mio parere, “attuale” non è solo “ciò che è in atto” e non è sinonimo di “recente”. Le cose più ”attuali” sono quelle eterne, cioè quelle che toccano le persone nel nucleo più intimo della propria esistenza, in ogni epoca e in ogni cultura. È la stessa distinzione che c’è tra “l’urgente” e “l’importante”. Noi siamo tentati sempre di anteporre l’urgente all’importante e di anteporre il “recente” all’”eterno”. È una tendenza che il ritmo incalzante della comunicazione e il bisogno di novità dei media rendono oggi particolarmente acuta.
Cosa c’è di più importante e attuale per il credente, e anzi per ogni uomo per ogni donna, che sapere se la vita ha un senso o no, se la morte è la fine di tutto o, al contrario, l’inizio della vera vita? Ora il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo è l’unica risposta a tali problemi. La differenza che c’è tra questa attualità e quella mediatica della cronaca è la stessa che c’è tra chi passa il tempo a guardare il disegno lasciato dall’onda sulla spiaggia (che l’onda successiva cancella!), e chi alza lo sguardo a contemplare il mare nella sua immensità.
Con questa consapevolezza meditiamo dunque sul mistero pasquale di Cristo, iniziando dalla sua morte di croce.
La Lettera agli Ebrei dice che Cristo “mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14). “Spirito eterno” è un altro modo per dire Spirito Santo, come attesta già una variante antica del testo. Questo vuol dire che, come uomo, Gesú ricevette dallo Spirito Santo che era in lui l’impulso a offrirsi in sacrificio al Padre e la forza che lo sostenne durante la sua passione. La liturgia esprime questa stessa convinzione, quando, nella preghiera che precede la comunione, fa dire al sacerdote: “Signore Gesú Cristo, Figlio di Dio vivo, per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo (cooperante Spiritu Sancto) hai dato la vita al mondo”.
Avviene per il sacrificio come per la preghiera di Gesú. Un giorno Gesú “esultò nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21). Era lo Spirito Santo che suscitava in lui la preghiera ed era lo Spirito Santo che lo spingeva a offrirsi al Padre. Lo Spirito Santo che è il dono eterno che il Figlio fa di se stesso al Padre nell’eternità, è anche la forza che lo spinge a farsi dono sacrificale al Padre per noi nel tempo.
Il rapporto tra lo Spirito Santo e la morte di Gesú è messo in rilievo soprattutto nel vangelo di Giovanni. “Non c’era ancora lo Spirito – commenta l’evangelista a proposito della promessa dei fiumi di acqua viva – perché Gesú non era ancora stato glorificato” (Gv 7, 39), cioè, secondo il significato di questa parola in Giovanni, non era stato ancora elevato sulla croce. Dalla croce Gesú “emette lo spirito”, simboleggiato dall’acqua e dal sangue; scrive infatti nella Prima Lettera: “Tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue” (1 Gv 5, 7-8).
Lo Spirito Santo porta Gesú alla croce e dalla croce Gesú dona lo Spirito Santo. Al momento della nascita e poi, pubblicamente, nel suo battesimo, lo Spirito Santo è dato a Gesú; nel momento della morte Gesú da lo Spirito Santo: “Dopo aver ricevuto lo Spirito Santo promesso, egli lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire”, dice Pietro alle folle il giorno di Pentecoste (At 2, 33). I Padri della Chiesa amavano mettere in luce questa reciprocità. “Il Signore –scriveva sant’Ignazio d’Antiochia – ha ricevuto sul suo capo un’unzione profumata (myron), per spirare sulla Chiesa l’incorruttibilità” .
A questo punto dobbiamo richiamare alla mente l’osservazione di sant’Agostino circa la natura dei misteri di Cristo. Secondo lui, si ha una vera celebrazione a modo di mistero e non solo a modo di anniversario, quando “non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato per noi e lo si accolga santamente” . Ed è quello che vorremmo fare in questa meditazione, guidati dallo Spirito Santo: vedere cosa significa per noi la morte di Cristo, che cosa essa ha cambiato a proposito della nostra morte.
2. Uno è morto per tutti.
Il credo della Chiesa termina con le parole ”Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Non menziona quello che precederà la risurrezione e la vita eterna, e cioè la morte. Giustamente, perché la morte non è oggetto di fede, ma di esperienza. La morte però ci riguarda troppo da vicino per passarla sotto silenzio.
Per poter valutare il cambiamento operato da Cristo nei confronti della morte, vediamo quali furono i rimedi tentati dagli uomini al problema della morte, anche perché essi sono quelli con cui anche oggi l’uomo cerca di “consolarsi”. La morte è il problema umano numero uno. Sant’Agostino anticipa la riflessione filosofica moderna sulla morte.
“Quando nasce un uomo – scrive – si fanno tante ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo, forse no… Ma di nessuno si dice: forse morirà o forse non morirà. Questa è l’unica cosa assolutamente certa della vita. Quando sappiamo che uno è malato di idropisia (allora era questa la malattia incurabile, oggi sono altre) diciamo: “Poveretto, deve morire; è condannato, non c’è rimedio”. Ma non dovremmo dire lo stesso di uno che nasce? “Poveretto, deve morire, non c’è rimedio, è condannato!”. Che differenza fa se in un tempo un po’ più lungo, o un po’ più breve? La morte è la malattia mortale che si contrae nascendo” .
Forse più che una vita mortale, la nostra è da considerarsi una “morte vitale”, un vivere morendo. Questo pensiero di Agostino è stato ripreso, in chiave secolarizzata, da Martin Heidegger che ha fatto entrare la morte a pieno diritto nell’oggetto della filosofia. Definendo la vita e l’uomo “un-essere-per-la-morte”, egli fa della morte non un incidente che pone fine alla vita, ma la sostanza stessa della vita, ciò di cui essa è tessuta. Vivere è morire. Ogni istante che viviamo è qualcosa che viene bruciato, sottratto alla vita e consegnato alla morte . “Vivere-per-la-morte” significa che la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita. Si nasce per morire, non per altro. Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla. Il nulla è l’unica possibilità dell’uomo.
È il più radicale rovesciamento della visione cristiana, secondo cui l’uomo è un “essere-per- l’eternità”. Tuttavia, l’affermazione cui è approdata la filosofia dopo la sua lunga riflessione sull’uomo non è né scandalosa né assurda. Semplicemente, la filosofia fa il suo mestiere; mostra quale sarebbe il destino umano lasciato a se stesso. Aiuta a comprendere la differenza che fa la fede in Cristo.
Più che la filosofia sono forse i poeti a dire le parole di sapienza più semplici e più vere sulla morte. 
Uno di essi, Giuseppe Ungaretti, parlando dello stato d’animo dei soldati in trincea nella Grande Guerra, ha descritto la situazione di ogni uomo di fronte al mistero della morte: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
La stessa Scrittura dell’Antico Testamento non ha una risposta chiara sulla morte. Di questa si parla nei libri sapienziali ma sempre in chiave di domanda, più che di risposta. Giobbe, i Salmi, il Qoelet, il Siracide, la Sapienza: tutti questi libri dedicano un’attenzione notevole al tema della morte. “Insegnaci a contare i nostri giorni – dice un salmo – e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90, 12). Perché si nasce? Perché si muore? Dove si va dopo morti? Sono tutte domande che per il saggio dell’Antico Testamento restano senza altra risposta che questa: Dio vuole così; su tutto ci sarà un giudizio.
La Bibbia ci riferisce le opinioni inquietanti degli increduli del tempo: “La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Non c’è ritorno dalla morte… Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati” (Sap 2, 1 ss). Soltanto in questo libro della Sapienza, che è il più recente dei libri sapienziali, la morte comincia a essere rischiarata dall’idea di una retribuzione ultraterrena. Le anime dei giusti, si pensa, sono nelle mani di Dio, anche se non si sa cosa questo vuole dire precisamente (cf Sap 3, 1). È vero che in un salmo si legge: “Preziosa è al cospetto del Signore la morte dei suoi fedeli” (Sal 116, 15). Ma non possiamo appoggiarci troppo su questo versetto tanto sfruttato, perché il significato della frase sembra essere un altro: Dio fa pagare cara la morte dei suoi fedeli; cioè ne è il vindice, ne chiede conto.
Come ha reagito l’uomo a questa dura necessità? Un modo sbrigativo è stato quello di non pensarci, distrarsi. Per Epicuro, per esempio, la morte è un falso problema: “Quando ci sono io – diceva – non c’è ancora la morte; quando c’è la morte non ci sono più io”. Essa dunque non ci riguarda. A questa logica di esorcizzare la morte rispondono anche le leggi napoleoniche che spostavano i cimiteri fuori dell’abitato.
Ci si è appigliati anche a rimedi positivi. Il più universale si chiama la prole, sopravvivere nei figli; un altro, sopravvivere nella fama: “Non morirò del tutto (“non omnis moriar”) – diceva il poeta latino –, perché resteranno di me i miei scritti, la mia fama”. “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo” . Per il marxismo l’uomo sopravvive nella società del futuro, non come individuo, ma come specie.
Un altro di questi rimedi palliativi è la reincarnazione. Ma è una stoltezza. Coloro che professano questa dottrina come parte integrante della loro cultura e religione, cioè coloro che sanno veramente che cos’è la reincarnazione, sanno anche che essa non è un rimedio e una consolazione, ma una punizione. Non è una proroga concessa al godimento, ma alla purificazione. L’anima si reincarna perché ha ancora qualcosa da espiare, e se deve espiare, dovrà soffrire. La parola di Dio tronca tutte queste vie di fuga illusorie: “È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio” (Eb 9, 27). Una sola volta! La dottrina della reincarnazione è incompatibile con la fede dei cristiani.
Ai nostri giorni si è andati oltre. Esiste un movimento a livello mondiale chiamato “transumanesimo”. Esso ha molte facce, non tutte negative, ma il suo nucleo comune è la convinzione che la specie umana, grazie ai progressi della tecnologia, è ormai incamminata a un radicale superamento di se stessa, fino a vivere per secoli e forse per sempre! Secondo uno dei suoi più noti rappresentanti, Zoltan Istvan, il traguardo finale sarà “diventare come Dio e vincere la morte”. Un credente ebreo o cristiano non può non pensare immediatamente alle parole quasi identiche pronunciate all’inizio della storia umana: “Non morirete affatto, anzi sarete come Dio” (cf Gen 3,4-5), con il risultato che conosciamo.
3. La morte è stata inghiottita dalla vittoria
Esiste un solo, vero rimedio alla morte e noi cristiani defraudiamo il mondo se non lo proclamiamo con la parola e la vita. Sentiamo come l’Apostolo Paolo annuncia al mondo questo cambiamento:
“Se per la caduta di uno solo, molti sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati abbondantemente su molti […]. Infatti, se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” (Rom 5, 12-17).
Con maggiore lirismo, il trionfo di Cristo sulla morte è descritto nella Prima Lettera ai Corinti:
“La morte è stata sommersa nella vittoria”. “O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?” Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” (1 Cor 15, 54-57).
Il fattore decisivo è collocato al momento della morte di Cristo: “Egli è morto per tutti” ( 2 Cor 5,15). Ma cosa è avvenuto di tanto decisivo in quel momento da cambiare il volto stesso della morte? Possiamo rappresentarcelo visivamente così. Il Figlio di Dio è sceso nella tomba, come in una prigione oscura, ma ne è uscito dalla parete opposta. Non è tornato indietro per dove era entrato, come Lazzaro che deve però tornare a morire. No, egli ha aperto una breccia sul versante opposto per la quale tutti quelli che credono in lui possono seguirlo.
Scrive un antico Padre: “Egli prese su di sé le sofferenze dell’uomo sofferente mediante il suo corpo capace di soffrire, ma con lo Spirito che non poteva morire, Cristo ha ucciso la morte che uccideva l’uomo”. E sant’Agostino: “Attraverso la passione Cristo passa dalla morte alla vita e apre così a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita” . La morte è diventata un passaggio e un passaggio a ciò che non passa! Dice bene il Crisostomo:
“È vero, noi moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte: e questo non è morire. Il potere e la forza reale della morte è soltanto questo: che un morto non ha alcuna possibilità di ritornare alla vita. Ma se dopo la morte egli riceve di nuovo la vita e, anzi, gli è data una vita migliore, allora questa non è più morte, ma un sonno”.
Tutti questi modi di spiegare il senso della morte di Cristo sono veri, ma non ci danno la spiegazione più profonda. Questa va cercata in quello che, con la sua morte, Gesú è venuto a mettere nella condizione umana, più che in ciò che è venuto a togliere; va cercata nell’amore di Dio, non nel peccato dell’uomo. Se Gesú soffre e muore di una morte violenta inflittagli per odio, non lo fa solo per pagare al posto degli uomini il loro insolvibile debito (il debito di diecimila talenti, nella parabola, viene condonato dal re!); muore crocifisso perché la sofferenza e la morte degli esseri umani siano abitate dall’amore!
L’uomo si era condannato da solo a una morte assurda ed ecco che entrando in questa morte egli scopre ormai che essa è permeata dell’amore di Dio. L’amore non ha potuto fare a meno della morte, a causa della libertà dell’essere umano: l’amore di Dio non può eliminare con un colpo di bacchetta magica la tragica realtà del male e della morte. Il suo amore è costretto a lasciare che la sofferenza e la morte dicano la loro parola. Ma poiché l’amore è penetrato nella morte e l’ha riempita della divina presenza, è l’amore ormai a dire l’ultima parola..
4. Che cosa è cambiato della morte
Che cosa dunque è cambiato, con Gesú, riguardo alla morte? Nulla e tutto! Nulla per la ragione, tutto per la fede. Non è cambiata la necessità di entrare nella tomba, ma viene data la possibilità di uscirne. È quello che illustra con potenza l’icona ortodossa della risurrezione, di cui vediamo una interpretazione moderna nella parete di sinistra di questa cappella. Il Risorto scende negli inferi e trascina fuori con sé Adamo ed Eva e dietro di loro tutti quelli che si aggrappano a lui, negli inferi di questo mondo.
Questo spiega l’atteggiamento paradossale del credente di fronte alla morte, così simile a quello di tutti gli altri e così diverso. Un atteggiamento fatto di tristezza, paura, orrore, perché sa di doversi calare in quell’abisso oscuro; ma anche di speranza perché sa di poterne uscire. “Se ci rattrista la certezza di dover morire –dice il prefazio dei defunti – ci consola la speranza dell’immortalità futura”. Ai fedeli di Tessalonica, afflitti dalla morte di alcuni di loro, S. Paolo scriveva:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati” ( 1 Tess 4, 13-14).
Non chiede loro di non essere afflitti per la morte, ma di non esserlo “come gli altri”, come i non credenti. La morte non è per il credente la fine della vita, ma l’inizio di quella vera; non è un salto nel vuoto, ma un salto nell’eternità. Essa è una nascita ed è un battesimo. È una nascita, perché solo allora comincia la vita vera, quella che non va verso la morte, ma dura per sempre. Per questo la Chiesa non celebra la festa dei santi nel giorno della loro nascita terrena, ma in quello della loro nascita al cielo, il loro “dies natalis”. Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi” .
La morte è anche un battesimo. Così designa Gesú la sua stessa morte: “C’è un battesimo con cui devo essere battezzato”(Lc 12,50). San Paolo parla del battesimo come di un essere “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,4). Anticamente, al momento del battesimo la persona veniva calata interamente nell’acqua; tutti i peccati e tutto l’uomo vecchio restavano sepolti nell’acqua e ne usciva una creatura nuova, simboleggiata dalla tunica bianca di cui veniva rivestito. Così succede nella morte: muore il bruco, nasce la farfalla. Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4). Tutto sepolto per sempre.
Per diversi secoli, specialmente dal Seicento in poi, un aspetto importante dell’ascesi cattolica consisteva nell’”apparecchio alla morte”, cioè nel meditare sulla morte, descrivendone visivamente i diversi stadi e il suo inesorabile avanzare dalla periferia del corpo fino al cuore. Quasi tutte le immagini dei santi dipinte in questo periodo li mostrano con un teschio accanto, anche Francesco d’Assisi che pure aveva chiamato la morte “sorella”.
Una delle attrazioni turistiche di Roma è ancora il cimitero dei Cappuccini di via Veneto. Non si può negare che tutto questo possa costituire un richiamo ancora utile per un’epoca così secolarizzata e spensierata come la nostra; soprattutto se si legge come un ammonimento rivolto a chi guarda la scritta che campeggia sopra uno degli scheletri: “Quello che tu sei, io fui; quello che io sono, tu sarai”.
Tutto questo ha dato a qualcuno il pretesto di dire che il cristianesimo si fa strada con la paura della morte. Ma è un errore terribile. Il cristianesimo, abbiamo visto, non è fatto per aumentare la paura della morte, ma per toglierla; Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, è venuto “per liberare quelli che, per paura della morte, erano tenuti soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Il cristianesimo non si fa strada con il pensiero della nostra morte, ma con il pensiero della morte di Cristo!
Per questo, più efficace che meditare sulla nostra morte, è meditare sulla passione e la morte di Gesú e dobbiamo dire, ad onore delle generazioni che ci hanno preceduto, che tale meditazione era anch’essa pane quotidiano nella spiritualità dei secoli ricordati. Essa è una meditazione che suscita commozione e gratitudine, non angoscia; ci fa esclamare, come all’apostolo Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20).
Un “pio esercizio” che mi sentirei di raccomandare a tutti durante la Quaresima è quello di prendere in mano un Vangelo e leggere per conto proprio, con calma e per intero, il racconto della passione. Basta meno di mezz’ora. Ho conosciuto una donna intellettuale che si professava atea. Un giorno le cade addosso una di quelle notizie che lasciano tramortite: sua figlia di sedici anni ha un tumore alle ossa. La operano. La ragazza torna dalla sala operatoria martoriata, con tubi, sondini e flebo da tutte le parti. Soffre terribilmente, geme e non vuole sentire nessuna parola di conforto.
La mamma, sapendola pia e religiosa, pensando di farle piacere, le dice: “Vuoi che ti legga qualcosa del Vangelo?”. “Sì, mamma!”. “Che cosa?”. “Leggimi la passione”. Lei, che non aveva mai letto un Vangelo, corre a comprarne uno dai cappellani; si siede accanto al letto e comincia a leggere. Dopo un po’ la figlia si addormenta, ma lei continua, nella penombra, a leggere in silenzio fino alla fine. “La figlia si addormentava – dirà lei stessa nel libro scritto dopo la morte della figlia –, e la mamma si risvegliava!”. Si risvegliava dal suo ateismo. La lettura della passione di Cristo le aveva cambiato per sempre la vita .
Terminiamo con la semplice ma pregnante preghiera della liturgia: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”. “Ti adoriamo e ti benediciamo, Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.
1.S. Ignazio d’Antiochia, Lettera agli Efesini, 17.
2.S. Agostino, Epistola 55,1,2 (CSEL, 34,1, p.170).
3.Cf. S. Agostino, Sermo Guelf. 12, 3 (Misc. Ag. I, p. 482 s.).
4.S. Agostino, Confessioni I, 6, 7.
5.Cf. M. Heidegger, Essere e Tempo, § 51, Longanesi, Milano 1976, p. 308 s.
6.Orazio, Odi, III, 30,1.6.
7.Melitone di Sardi, Sulla Pasqua, 66 (SCh 123, p. 96).
8.S. Agostino, Commento ai Salmi, 120,6)
9.S. Giovanni Crisostomo, In Haebr, hom. 17,2 (PG 63, 129).
10.N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 1-2, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1971, 65-67.
11.Cf. Rosanna Garofalo, Sopra le ali dell’aquila, Ancora, Milano 1993.

sabato 8 aprile 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della divinità di Cristo

seconda predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
17 marzo 2017

1. La fede di Nicea

Proseguiamo, in questa meditazione, la riflessione sul ruolo dello Spirito Santo nella conoscenza di Cristo. A questo proposito non si può tacere una riprova in atto oggi nel mondo. Esiste da tempo un movimento chiamato degli “Ebrei messianici”, cioè degli Ebrei-cristiani. (“Cristo” e “cristiano” non sono che la traduzione greca dell’ebraico Messia e messianico!). Una stima per difetto parla di 150 mila aderenti, distinti in gruppi e associazioni diverse tra loro, diffusi soprattutto negli stati Uniti, in Israele e in varie nazioni europee.
Sono ebrei che credono che Gesú, Yeshua, è il Messia promesso, il Salvatore e il Figlio di Dio, ma non vogliono assolutamente rinunciare alla loro identità e tradizione ebraica. Non aderiscono ufficialmente a nessuna delle Chiese cristiane tradizionali, perché intendono ricollegarsi e far rivivere la primitiva Chiesa dei giudeo-cristiani, la cui esperienza fu interrotta bruscamente da noti eventi traumatici.
La Chiesa cattolica e le altre Chiese si sono sempre astenute dal promuovere, e perfino nominare, questo movimento per ovvie ragioni di dialogo con l’ebraismo ufficiale. Io stesso non ne ho mai parlato. Ma ora si sta facendo strada la convinzione che non è giusto continuare a ignorarli o, peggio, ostracizzarli da una parte e dell’altra. È uscito da poco in Germania uno studio di diversi teologi sul fenomeno . Se ne parlo in questa sede è per un motivo preciso, attinente al tema di queste meditazioni. A una inchiesta sui fattori e le circostanze che sono state all’origine della loro fede in Gesú, più del 60% degli interessati ha risposto: “una trasformazione interiore ad opera dello Spirito Santo”; al secondo posto c’è la lettura della Bibbia e al terzo, contatti personali . È una conferma dalla vita che lo Spirito Santo è colui che da la vera, intima conoscenza di Cristo.
Riprendiamo dunque il filo delle nostre considerazioni storiche. Finché la fede cristiana rimase ristretta all’ambito biblico e giudaico, la proclamazione di Gesù come Signore (“Credo in un solo Signore Gesú Cristo”), soddisfaceva tutte le esigenze della fede cristiana e giustificava il culto di Gesù “come Dio”. Signore, Adonai, era infatti per Israele un titolo inequivocabile; esso appartiene esclusivamente a Dio. Chiamare Gesú Signore, equivale perciò a proclamarlo Dio. Abbiamo una prova inconfutabile del ruolo svolto dal titolo Kyrios all’inizio della Chiesa come espressione del culto divino attribuito a Cristo. Nella sua versione aramaica Maran-atha (Il Signore viene), o Marana-tha (Vieni, Signore!), esso appare già in san Paolo come formula liturgica (1 Cor 16, 22) ed è una delle poche parole conservate nella lingua della primitiva comunità .
Non appena però il cristianesimo si affacciò sul mondo greco romano circostante, il titolo di Signore, Kyrios, non bastava più. Il mondo pagano conosceva molti e diversi “signori”, primo fra tutti, appunto, l’imperatore romano. Occorreva trovare un altro modo per garantire la piena fede in Cristo e il suo culto divino. La crisi ariana ne offrì l’occasione.
Questo ci introduce alla seconda parte dell’articolo su Gesù, quella che fu aggiunta al simbolo di fede nel concilio di Nicea del 325:
“nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza (homoousios) del Padre”.
Il vescovo di Alessandria, Atanasio, campione indiscusso della fede nicena, è ben convinto di non essere lui, né la Chiesa del suo tempo, a scoprire la divinità di Cristo. Tutta la sua opera consisterà, al contrario, nel mostrare che questa è stata sempre la fede della Chiesa; che nuova non è la verità, ma l’eresia contraria. La sua convinzione a questo riguardo trova una conferma storica indiscussa nella lettera che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, scrisse all’imperatore Traiano intorno all’anno 111 d.C. L’unica notizia certa che egli dice di possedere nei confronti dei cristiani è che “sono soliti radunarsi prima dell’alba, in un giorno stabilito della settimana, e inneggiare a Cristo come a Dio” (“carmenque Christo quasi Deo dicere”)
La fede nella divinità di Cristo esisteva dunque già ed è solo ignorando completamente la storia che qualcuno ha potuto affermare che la divinità di Cristo è un dogma voluto e imposto dall’imperatore Costantino nel concilio di Nicea. L’apporto dei Padri di Nicea e in particolare di Atanasio, fu, più che altro, quello di rimuovere gli ostacoli che avevano impedito fino allora un riconoscimento pieno e senza reticenze della divinità di Cristo nelle discussioni teologiche.
Uno di tali ostacoli era l’abitudine greca di definire l’essenza divina con il termine agennetos, ingenerato. Come proclamare che il Verbo è vero Dio, dal momento che esso è Figlio, cioè generato dal Padre? Era facile per Ario stabilire l’equivalenza: generato, uguale fatto, cioè passare gennetos a genetos, e concludere con la celebre frase che fece esplodere il caso: “Ci fu un tempo in cui non c’era!” (en ote ouk en). Questo equivaleva a fare di Cristo una creatura, anche se non “come le altre creature”. Atanasio risolve la controversia con una osservazione elementare: “Il termine agenetos fu inventato dai greci perché non conoscevano ancora il Figlio” e difese a spada tratta l’espressione “generato, ma non fatto”, genitus non factus, di Nicea,
Un altro ostacolo culturale al pieno riconoscimento della divinità di Cristo, sul quale Ario poteva appoggiare la sua tesi, era la dottrina di una divinità intermedia, il deuteros theos, preposto alla creazione del mondo. Da Platone in poi, essa era diventata un dato comune a molti sistemi religiosi e filosofici dell’antichità. La tentazione di assimilare il Figlio, “per mezzo del quale erano state create tutte le cose”, a questa entità intermedia era rimasta strisciante nella speculazione cristiana (Apologisti, Origene), anche se estranea alla vita interna della Chiesa. Ne risultava uno schema tripartito dell’essere: al vertice, il Padre ingenerato; dopo di lui, il Figlio (e più tardi anche lo Spirito Santo); al terzo posto, le creature.
La definizione del “genitus non factus” e dell’homoousios , rimuove questo ostacolo e opera la catarsi cristiana dell’universo metafisico dei greci. Con tale definizione, una sola linea di demarcazione è tracciata sulla verticale dell’essere. Esistono due soli modi di essere: quello del creatore e quello delle creature e il Figlio si colloca dalla parte del primo, non delle seconde.
Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell’accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura.
È importante sapere cosa motiva Atanasio e gli altri teologi ortodossi nella battaglia, da dove, cioè, viene loro una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, fa della salvezza in Cristo Gesú.
L’argomento soteriologico non nasce con la controversia ariana; esso è presente in tutte le grandi controversie cristologiche antiche, da quella antignostica a quella antimonotelita. Nella sua formulazione classica esso suona così: “Ciò che non è assunto non è salvato” (“Quod non est assumptum non est sanatum”) . Nell’uso che ne fa Atanasio, esso può essere così inteso: “Ciò che non è assunto da Dio non è salvato”, dove la forza è tutta in quella breve aggiunta “da Dio”. La salvezza esige che l’uomo non sia assunto da un intermediario qualsiasi, ma da Dio stesso: “Se il Figlio è una creatura – scrive Atanasio – l’uomo rimarrebbe mortale, non essendo unito a Dio”, e ancora: “L’uomo non sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre” .
Occorre tuttavia fare una precisazione importante. La divinità di Cristo non è un “postulato” pratico, come è, per Kant, l’esistenza stessa di Dio . Non è un postulato, ma la spiegazione di un dato di fatto. Sarebbe un postulato – e dunque una deduzione teologica umana – se si partisse da una certa idea di salvezza e da essa si deducesse la divinità di Cristo come l’unica capace di operare tale salvezza; è invece la spiegazione di un dato se si parte, come fa Atanasio, da una esperienza di salvezza e si dimostra come essa non potrebbe esistere se Cristo non fosse Dio. In altre parole, non è sulla salvezza che si fonda la divinità di Cristo, ma è sulla divinità di Cristo che si fonda la salvezza.
2. “Voi, chi dite che io sia?”

Ma è tempo di venire a noi e cercare di vedere cosa possiamo imparare oggi dall’epica battaglia sostenuta a suo tempo dall’ortodossia. La divinità di Cristo è la pietra angolare che sorregge i due misteri principali della fede cristiana; la Trinità e l’incarnazione. Essi sono come due porte che si aprono e si chiudono insieme. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Tale è l’edificio della fede cristiana, e questa sua pietra angolare è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e prima di ogni altra cosa la Trinità. Se il Figlio non è Dio, da chi è formata la Trinità? Lo aveva già denunciato con chiarezza sant’ Atanasio, scrivendo contro gli ariani:
“Se il Verbo non esiste insieme con il Padre da tutta l’eternità, allora non esiste una Trinità eterna, ma prima ci fu l’unità e poi, con il passare del tempo, per aggiunta, ha cominciato ad esserci la Trinità” .
Sant’ Agostino diceva: “ Non è gran cosa credere che Gesù è morto; questo lo credono anche i pagani, anche i giudei e i reprobi; tutti lo credono. Ma è cosa veramente grande credere che egli è risorto. La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo” . La stessa cosa, oltre che della morte e risurrezione, si deve dire dell’umanità e divinità di Cristo, di cui morte e risurrezione sono le rispettive manifestazioni. Tutti credono che Gesù sia uomo; ciò che fa la diversità fra credenti e non credenti è credere che egli sia Dio. La fede dei cristiani è la divinità di Cristo!
Dobbiamo porci una domanda seria. Che posto occupa Gesù Cristo nella nostra società e nella stessa fede dei cristiani? Penso si possa parlare, a questo riguardo, di una presenza-assenza di Cristo. A un certo livello – quello dello spettacolo e dei mass-media in generale – Gesù Cristo è molto presente. In una serie interminabile di racconti, film e libri, gli scrittori manipolano la figura di Cristo, a volte sotto pretesto di fantomatici nuovi documenti storici su di lui. È diventato ormai una moda, un genere letterario. Si specula sulla vasta risonanza che ha il nome di Gesú e su quello che egli rappresenta per larga parte dell’umanità, per assicurarsi larga pubblicità a basso costo. Io chiamo tutto questo parassitismo letterario.
Da un certo punto di vista possiamo dunque dire che Gesù Cristo è molto presente nella nostra cultura. Ma se guardiamo all’ambito della fede, al quale egli in primo luogo appartiene, notiamo, al contrario, una inquietante assenza, se non addirittura rifiuto della sua persona. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono “credenti” in Europa e altrove? Credono, il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore; credono che esiste un “aldilà”. Questa però è una fede deistica, non ancora una fede cristiana. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana. Gesù Cristo è in pratica assente in questo tipo di religiosità.
Anche il dialogo tra scienza e fede porta, senza volerlo, a una messa tra parentesi di Cristo. Esso ha infatti per oggetto Dio, il Creatore. La persona storica di Gesú di Nazareth non vi ha alcun posto. Succede lo stesso anche nel dialogo con la filosofia che ama occuparsi di concetti metafisici, e non di realtà storiche, per non parlare del dialogo interreligioso in cui si discute di pace, ecologismo, ma certo non di Gesù.
Basta un semplice sguardo al Nuovo Testamento per capire quanto siamo lontani, in questo caso, dal significato originale della parola “fede” nel Nuovo Testamento. Per Paolo, la fede che giustifica i peccatori e conferisce lo Spirito Santo (Gal 3,2), in altre parole, la fede che salva, è la fede in Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione.
Già durante la vita terrena di Gesù, la parola fede indica fede in lui. Quando Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, quando rimprovera gli apostoli chiamandoli “uomini di poca fede”, non si riferisce alla fede generica in Dio che era scontata tra ebrei; parla di fede in lui! Questo smentisce da solo la tesi secondo cui la fede in Cristo comincia solo con la Pasqua e prima c’è solo il “Gesù della storia”. Il Gesù della storia è già uno che postula fede in lui e se i discepoli l’hanno seguito è proprio perché avevano una certa fede in lui, anche se tanto imperfetta prima della venuta dello Spirito Santo a Pentecoste.
Dobbiamo lasciarci investire in pieno viso dunque dalla domanda che Gesú rivolse un giorno ai suoi discepoli, dopo che questi gli hanno riferito le opinione della gente introno a lui: “Ma voi, chi credete che io sia?”, e da quella ancora più personale: “Credi tu?” Credi veramente? Credi con tutto il cuore? San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). “È dalle radici del cuore che sale la fede”, esclama sant’Agostino .
In passato, il secondo momento di questo processo – cioè la professione della retta fede, l’ortodossia – ha preso a volte tanto rilievo da lasciare nell’ombra quel primo momento che è il più importante e che si svolge nelle profondità recondite del cuore. Quasi tutti i trattati “Sulla fede” (De fide) scritti nell’antichità, si occupano delle cose da credere, e non dell’atto del credere.
3. Chi è che vince il mondo 

Dobbiamo ricreare le condizioni per una fede nella divinità di Cristo senza riserve e senza reticenze. Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque la formula di fede. Il corpo della Chiesa ha prodotto una volta uno sforzo supremo, con cui si è elevato, nella fede, al di sopra di tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze della ragione. In seguito, è rimasto il frutto di questo sforzo. La marea si è sollevata una volta a un livello massimo e ne è rimasto il segno sulla roccia. Questo segno è la definizione di Nicea che proclamiamo nel credo. Bisogna però che si ripeta la sollevazione, non basta il segno. Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c'è stato più l'eguale nei secoli. Di esso c'è nuovamente bisogno.
Ce n’è bisogno anzitutto in vista di una nuova evangelizzazione. San Giovanni, nella sua Prima Lettera, scrive: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? (1 Gv 5,4-5). Dobbiamo capire bene cosa vuol dire “vincere il mondo”. Non vuol dire riscuotere più successo, dominare sulla scena politica e culturale. Questo sarebbe piuttosto l’opposto: non vincere il mondo, ma mondanizzarsi. Purtroppo non sono mancate epoche in cui si è caduti, senza rendersene conto, in questo equivoco. Si pensi alle teorie delle due spade o del triplice regno del sovrano pontefice, anche se dobbiamo sempre stare attenti a non giudicare il passato con i criteri e le certezze del presente. Dal punto di vista temporale, avviene piuttosto il contrario, e Gesú lo dichiara in anticipo ai suoi discepoli: “Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
È escluso dunque ogni trionfalismo. Si tratta di una vittoria di ben altro tipo: di una vittoria su quello che anche il mondo odia e non accetta di se stesso: la temporalità, la caducità, il male, la morte. Questo, infatti, è ciò che significa, nella sua accezione negativa, la parola “mondo” (kosmos) nel Vangelo. È in questo senso che Gesú dice: “Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33).
Come ha vinto il mondo Gesú? Non certo sbaragliando i nemici con “dieci legioni di angeli”, ma piuttosto, come dice Paolo “vincendo l’inimicizia” (cf. Ef 2, 16), vale a dire tutto ciò che separa l’uomo da Dio, l’uomo dall’uomo, un popolo da un altro popolo. Perché non ci fossero dubbi sulla natura di questa vittoria sul mondo, essa viene inaugurata con un trionfo tutto speciale, quello della croce.
Gesú ha detto: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Sono le parole più spesso riprodotte nella pagina del libro che il Pantocrator tiene aperto tra le mani nei mosaici antichi, come in quello famoso della cattedrale di Cefalù. Di lui l’evangelista afferma: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Luce e vita, Phos e Zoè: queste due parole hanno in greco la lettera centrale (un omega) in comune e spesso si trovano incrociate, scritte una orizzontalmente e l’altra verticalmente, a formare un potente e diffusissimo monogramma di Cristo.
Che cosa desidera maggiormente l’uomo se non queste due cose: luce e vita? Di un grande spirito moderno, Goethe, si sa che morì mormorando: “Più luce!”. Forse egli si riferiva alla luce naturale che voleva entrasse in misura maggiore nella sua stanza, ma alla frase è stato sempre attribuito, giustamente, un significato anche metaforico e spirituale. Un mio amico che è tornato alla fede in Cristo dopo aver attraversato tutte le esperienze religiose possibili e immaginabili, ha raccontato la sua vicenda in un libro intitolato “Mendicante di luce”. Il momento cruciale fu quando, nel bel mezzo di una sua meditazione profonda, sentì rimbombare nella sua mente, senza che potesse farle tacere, le parole di Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita” . Sulla falsariga di quello che l’apostolo Paolo disse agli ateniesi nell’Areopago, noi siamo chiamati a dire con tutta umiltà al mondo d’oggi: “Quello che voi cercate, andando come a tentoni, noi ve lo annunciamo” (cf. Atti 17, 23.27).
“Datemi un punto di appoggio - avrebbe esclamato l’inventore della leva, Archimede – e io vi solleverò il mondo”. Chi crede nella divinità di Cristo è uno che ha trovato questo punto di appoggio. “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,25).
4. “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”

Non possiamo però terminare la nostra riflessione senza raccogliere anche l’appello che essa contiene, non solo in vista dell’evangelizzazione ma anche della nostra vita e testimonianza personale. 

Nel dramma di Claudel “Il padre umiliato”, ambientato a Roma al tempo del beato Pio IX, c’è una scena molto suggestiva. Una fanciulla ebrea, bellissima ma cieca, passeggia di sera nel giardino di una villa romana con il nipote del papa Orian innamorato di lei. Giocando sul duplice significato della luce, quello fisico e quello della fede, a un certo punto, “a voce bassa e con ardore”, ella dice all’amico cristiano:
“Ma voi che ci vedete, che cosa ne fate voi della luce? […]
Voi che dite di vivere, cosa ne fate della vita?” .
È una domanda che non possiamo lasciar cadere nel vuoto: che cosa ne facciamo noi cristiani della nostra fede in Cristo? Anzi, che cosa ne faccio io della mia fede in Cristo? Gesú un giorno disse ai suoi discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23; Mt 13,16). È una di quelle affermazioni con cui Gesú, in più occasioni, cerca di aiutare i suoi discepoli a scoprire da soli la sua vera identità, non potendo rivelarla in modo diretto a causa della loro impreparazione ad accoglierla.
Noi sappiamo che le parole di Gesù sono parole che “non passeranno mai” (Mt 24, 35), sono, cioè parole vive, rivolte a chiunque le ascolta con fede, in ogni momento e luogo della storia. È a noi perciò che egli dice, ora e qui: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!”. Se non abbiamo mai riflettuto seriamente su quanto siamo fortunati noi che crediamo in Cristo, forse è l’occasione per farlo.
Perché “beati”, se i cristiani non hanno certo più motivo degli altri di rallegrarsi in questo mondo e anzi in molte regioni della terra sono continuamente esposti alla morte, proprio per la loro fede in Cristo? La risposta ce la da lui stesso: “Perché vedete!”. Perché conoscete il senso della vita e della morte, perché “vostro è il regno dei cieli”. Non nel senso di “vostro e di nessun altro” (sappiamo che il regno dei cieli, nella sua prospettiva escatologica, si estende ben oltre i confini della Chiesa); “vostro” nel senso che voi ne siete già parte, ne gustate le primizie. Voi avete me!
La frase più bella che una sposa può dire allo sposo e viceversa, è: “Mi hai reso felice!” Gesú merita che la sua sposa, la Chiesa, glielo dica dal profondo del cuore. Io glielo dico e invito voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, a fare altrettanto. Oggi stesso, per non dimenticarcelo.


1. Ulrich Laepple (ed.), Messianische Juden. Eine Provokation, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2016.
2.Laepple, cit., p. 34.
3. Cf. Didachè, X, 6; in Ap 22, 20, l’esclamazione: „Vieni, Signore Gesù“ è la traduzione dei Marana-tha.
4.Plinio il Giovane, Relatio de Christianis ad Traianum, Epistulae X, 96 (in C. Kirch, Enchiridion Fontium Historiae Ecclesiasticae Antiquae, Herder 1965, p. 23).
5.S. Atanasio, De decretis Nicenae synodi, 31.
6.S. Gregorio Nazianzeno, Lettera Cledonio (PG 37, 181).
7.S. Atanasio, Contra Arianos, II, 69 e I, 70.
8.I. Kant, Critica della ragion pratica, capp. III, VI
9.S. Atanasio, Contra Arianos I, 17-18 (PG 26, 48).
10.S. Agostino, Commento ai Salmi, 120, 6 (CCL 40, p. 1791).
11.S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
12.Masterbee, Mendicante di luce. Dal Tibet al Gange e oltre, San Paolo, Cinisello B. 2006, pp. 223 ss.
13. Paul Claudel, Le père humilié, atto I, sc. 3 (Paul Claudel, Le théatre, Paris Gallimard 1956, p.506).

lunedì 3 aprile 2017

Lo Spirito Santo ci introduce nel mistero della Signoria di Cristo

prima predica di Quaresima 2017
di Padre Raniero Cantalamessa
10 marzo 2017

1. “Egli mi renderà testimonianza”


Leggendo l’orazione colletta della Prima Domenica di Quaresima mi ha colpito quest’anno un dettaglio. In essa non si chiede a Dio Padre di darci la forza di compiere qualcuna delle opere classiche di questo tempo: digiuno, preghiera, elemosina; si domanda una cosa sola: di farci “crescere nella conoscenza del mistero di Cristo”. Credo che sia davvero l’opera più bella e più gradita al Salvatore ed è lo scopo a cui vorrei contribuire con le meditazioni quaresimali di quest’anno.
Proseguendo la riflessione iniziata nella predicazione dell’Avvento sullo Spirito Santo che deve permeare tutta la vita e l’annuncio della Chiesa (“Teologia del terzo articolo”!), in queste meditazioni quaresimali ci proponiamo di risalire dal terzo al secondo articolo del credo. In altre parole, cercheremo di mettere in luce come lo Spirito Santo “ci introduce alla piena verità” su Cristo e sul suo mistero pasquale, cioè sull’essere e sull’agire del Salvatore. Dell’agire di Cristo, in sintonia con il tempo liturgico della Quaresima, cercheremo di approfondire il ruolo che lo Spirito Santo svolge nella morte e nella risurrezione di Cristo e, dietro lui, nella nostra morte e nella nostra risurrezione.
Il secondo articolo del credo, nella sua forma completa, suona così:
“Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create”.
Questo articolo centrale del credo riflette due stadi diversi della fede. La frase “Credo in un solo Signore Gesù Cristo”, riflette la primissima fede della Chiesa, subito dopo la Pasqua. Quello che segue nell’articolo del credo: “Unigenito Figlio di Dio…” riflette uno stadio posteriore, più evoluto, successivo alla controversia ariana e al concilio di Nicea. Dedichiamo la presente meditazione alla prima parte dell’articolo “credo in un solo Signore Gesú Cristo”, e vediamo cosa il Nuovo Testamento ci dice intorno allo Spirito come autore della vera conoscenza del Cristo.
San Paolo afferma che Gesù Cristo viene manifestato “Figlio di Dio con potenza mediante lo Spirito di santificazione” (Rom 1, 4), cioè ad opera dello Spirito Santo. Arriva ad affermare che “nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non nello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3), cioè grazie a una sua interiore illuminazione. Attribuisce allo Spirito Santo “la comprensione del mistero di Cristo” che è stata data a lui, come a tutti i santi apostoli e profeti (cf. Ef 3, 4-5); dice che i credenti saranno in grado di “comprendere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” soltanto se saranno “rafforzati dallo Spirito” (Ef 3, 16-19).
Nel vangelo di Giovanni, Gesù stesso annuncia quest’opera del Paraclito nei suoi confronti. Egli prenderà del suo e lo annuncerà ai discepoli; ricorderà loro tutto ciò che egli ha detto; li condurrà alla verità tutt’intera sul suo rapporto con il Padre e gli renderà testimonianza (cf. Gv 16, 7-15). Proprio questo anzi sarà, d’ora in poi, il criterio per riconoscere se si tratta del vero Spirito di Dio e non di un altro spirito: se spinge a riconoscere Gesù venuto nella carne (cf. 1 Gv 4, 2-3).
Alcuni credono che l’enfasi attuale sullo Spirito Santo possa mettere in ombra l’opera di Cristo, quasi che questa fosse incompleta o perfettibile. È una incomprensione totale. Lo Spirito non dice mai “io”, non parla mai in prima persona, non pretende di fondare una propria opera, ma fa sempre riferimento a Cristo. Lo Spirito Santo non fa cose nuove, ma fa nuove le cose! Non aggiunge nulla alle cose “istituite” da Gesù, ma le vivifica e le rinnova.
La venuta dello Spirito Santo a Pentecoste si traduce in una improvvisa illuminazione di tutto l’operato e la persona di Cristo. Pietro conclude il suo discorso di Pentecoste con la solenne definizione, oggi si direbbe “urbi et orbi”: “Sappia dunque con certezza, tutta la casa d’Israele, che Dio ha costituito quel Gesù che voi avete crocifisso, Signore (Kyrios) e Messia” (At 2, 36). A partire da quel giorno, la comunità primitiva cominciò a rileggere la vita di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione, in maniera diversa; tutto sembrò chiaro, come se un velo fosse caduto dai loro occhi (cf. 2 Cor 3.16). Pur vivendo gomito a gomito con lui, senza lo Spirito non avevano potuto penetrare nella profondità del suo mistero.
Oggi è in atto un riavvicinamento tra teologia ortodossa e teologia cattolica su questo tema del rapporto tra Cristo e lo Spirito. 
Il teologo Johannes Zizioulas, in un convegno tenutosi a Bologna nel 1980, da una parte esprimeva delle riserve sulla ecclesiologia del Vaticano II perché, secondo lui, “lo Spirito Santo veniva introdotto nell’ecclesiologia dopo che si era costruito l’edificio della Chiesa con il solo materiale cristologico”, dall’altra però riconosceva che anche la teologia ortodossa aveva bisogno di ripensare il rapporto tra cristologia e pneumatologia, per non costruire l’ecclesiologia solo su una base pneumatologica . In altre parole, noi latini siamo stimolati ad approfondire il ruolo dello Spirito Santo nella vita interna della Chiesa (che è quello che è avvenuto dopo il Concilio) e i fratelli ortodossi quello di Cristo e della presenza della Chiesa nella storia.
2. Conoscenza oggettiva e conoscenza soggettiva di Cristo

Torniamo dunque al ruolo dello Spirito Santo nei confronti della conoscenza di Cristo. Si delineano già, nell’ambito del Nuovo Testamento, due tipi di conoscenza di Cristo, o due ambiti in cui lo Spirito svolge la sua azione. C’è una conoscenza oggettiva di Cristo, del suo essere, del suo mistero e della sua persona, e c’è una conoscenza più soggettiva, funzionale e interiore che ha per oggetto quello che Gesù “fa per me”, più che quello che egli “è in sé”.
In Paolo prevale ancora l’interesse per la conoscenza di ciò che Cristo ha fatto per noi, per l’operato di Cristo e in particolare il suo mistero pasquale; in Giovanni prevale ormai l’interesse per ciò che Cristo è: il Logos eterno che era presso Dio ed è venuto nella carne, che è “una cosa sola con il Padre” (Gv 10,30). Per Giovanni Cristo è soprattutto il Rivelatore, per Paolo è soprattutto il Salvatore. Ma è solo dagli sviluppi successivi che queste due tendenze appariranno evidenti. Le accenniamo brevemente perché questo ci aiuterà a cogliere qual è il dono che lo Spirito Santo fa, in questo campo, oggi alla Chiesa.
Nell’epoca patristica, lo Spirito Santo appare soprattutto come garante della tradizione apostolica intorno a Gesù, contro le innovazioni degli gnostici. 

Alla Chiesa -afferma sant’Ireneo- è stato affidato il Dono di Dio che è lo Spirito; di lui non sono partecipi quanti si separano dalla verità predicata dalla Chiesa con le loro false dottrine . Le Chiese apostoliche -argomenta Tertulliano- non possono aver errato nel predicare la verità. Pensare il contrario, significherebbe che “lo Spirito Santo, a questo scopo inviato da Cristo, impetrato dal Padre quale maestro di verità, lui che è il vicario di Cristo e il suo amministratore, sarebbe venuto meno al proprio ufficio” .
All’epoca delle grandi controversie dogmatiche, lo Spirito Santo è visto come il custode dell’ortodossia cristologica. Nei concili, la Chiesa ha la ferma certezza di essere “ispirata” dallo Spirito nel formulare la verità intorno alle due nature di Cristo, all’unità della sua persona, alla completezza della sua umanità. L’accento è dunque chiaramente sulla conoscenza oggettiva, dommatica, ecclesiale di Cristo.
Questa tendenza resta predominante, in teologia, fino alla Riforma. Con una differenza però. I dogmi che al momento di essere formulati erano questioni vitali, frutto di viva partecipazione, di tutta la Chiesa, una volta sanciti e tramandati, tendono a perdere mordente, a diventare formali. “Due nature una persona”, diventa una formula bell’e fatta, più che il punto di arrivo di un lungo e sofferto processo. Non sono certo mancate, in tutto questo tempo, splendide esperienze di una conoscenza di Cristo intima, personale, piena di calda devozione a Cristo, come quelle di san Bernardo e di Francesco d’Assisi; ma esse non influivano molto sulla teologia. Anche oggi di esse si parla nella storia della spiritualità, non in quella della teologia.
I riformatori protestanti rovesciano questa situazione e dicono: “Conoscere Cristo significa riconoscere i suoi benefici, non indagare le sue nature e i modi dell’incarnazione” . Il Cristo “per me” balza in primo piano. Alla conoscenza oggettiva, dommatica, si oppone una conoscenza soggettiva, intima; alla testimonianza esterna della Chiesa e delle stesse Scritture su Gesù, si antepone la “testimonianza interna” che lo Spirito Santo rende a Gesù nel cuore di ogni credente.
Quando, più tardi, questa novità teologica tenderà, essa stessa, nel protestantesimo ufficiale, a trasformarsi in “morta ortodossia”, sorgeranno periodicamente movimenti, come il Pietismo nell’ambito luterano e il Metodismo in quello anglicano, per riportarla in vita. L’apice della conoscenza di Cristo coincide, in questi ambienti, con il momento in cui, mosso dallo Spirito Santo, il credente prende coscienza che Gesù è morto “per lui”, proprio per lui, e lo riconosce come suo Salvatore personale:
“Per la prima volta con tutto il cuore io credetti;
credetti di fede divina,
e nello Spirito Santo ottenni il potere
di chiamare mio il Salvatore.
Sentii il sangue d’espiazione del mio Signore
direttamente applicato all’anima mia” .
Completiamo questo rapido sguardo alla storia, accennando a una terza fase nel modo di concepire il rapporto tra lo Spirito Santo e la conoscenza di Cristo, quella che ha caratterizzato i secoli dell’Illuminismo, di cui noi siamo i diretti eredi. Ritorna in auge una conoscenza oggettiva, distaccata; non più però di tipo ontologico, come nell’epoca antica, ma storico. In altre parole, non interessa sapere chi è in sé Gesù Cristo (la preesistenza, le nature, la persona), ma chi è stato nella realtà della storia. È l’epoca della ricerca intorno al cosiddetto “Gesù storico”!
In questa fase, lo Spirito Santo non svolge più alcun ruolo nella conoscenza di Cristo; vi è del tutto assente. La “testimonianza interna” dello Spirito Santo viene identificata ormai con la ragione e con lo spirito umano. La “testimonianza esterna” è l’unica importante, ma con essa non si intende più la testimonianza apostolica della Chiesa, ma unicamente quella della storia, accertata con i diversi metodi critici. Il presupposto comune di questo sforzo era che per trovare il vero Gesù, bisogna cercare fuori della Chiesa, scioglierlo “dalle bende del dogma ecclesiastico” .
Sappiamo qual è stato l’esito di tutta questa ricerca del Gesù storico: il fallimento, anche se questo non significa che essa non ha portato anche molti frutti positivi. Persiste ancora, a questo riguardo, un equivoco di fondo. Gesù Cristo – e dopo di lui altri uomini, come san Francesco d’Assisi – non è semplicemente vissuto nella storia, ma ha creato una storia, e vive ora nella storia che ha creato, come un suono nell’onda che ha provocato. Lo sforzo accanito degli storici razionalisti sembra quello di separarlo dalla storia che ha creato, per restituirlo a quella comune e universale, come se si potesse percepire meglio un suono nella sua originalità, separandolo dall’onda che lo trasporta. La storia che Gesù ha iniziato, o l’onda che ha emesso, è la fede della Chiesa animata dallo Spirito Santo ed è solo attraverso di essa che si risale alla sua fonte.
Non è esclusa con ciò la legittimità anche della normale ricerca storica su di lui, ma questa dovrebbe essere più consapevole del suo limite e riconoscere che non esaurisce tutto quello che si può sapere di Cristo. Come l’atto più nobile della ragione è riconoscere che c’è qualcosa che la supera , così l’atto più onesto dello storico è riconoscere che c’è qualcosa che non si raggiunge con la sola storia.
3. La sublime conoscenza di Cristo

Al termine della sua opera classica sulla storia della esegesi cristiana, Henri de Lubac arrivava a una conclusione piuttosto pessimistica. Mancano a noi moderni, diceva, le condizioni per poter risuscitare una lettura spirituale come quella dei Padri; ci manca quella fede piena di slancio, quel senso della pienezza e dell’unità delle Scritture che avevano essi. Voler imitare oggi la loro audacia nel leggere la Bibbia sarebbe un esporsi quasi alla profanazione perché ci mancano lo spirito da cui scaturivano quelle cose . Tuttavia egli non chiudeva del tutto la porta alla speranza; in un’altra sua opera dice che “se si vuole ritrovare qualcosa di quello che fu, nei primi secoli della Chiesa, l’interpretazione spirituale delle Scritture, bisogna riprodurre anzitutto un movimento spirituale” .
Quello che il de Lubac notava a proposito della intelligenza spirituale delle Scritture, si applica, a più forte ragione, alla conoscenza spirituale di Cristo. Non basta scrivere nuovi e più aggiornati trattati di pneumatologia. Se manca il supporto di una vissuta esperienza dello Spirito, analoga a quella che accompagnò, nel IV secolo, la prima elaborazione della teologia dello Spirito, quello che si dice rimarrà sempre all’esterno del vero problema. Ci mancano le condizioni necessarie per elevarci al piano in cui opera il Paraclito: lo slancio, l’audacia e quella “sobria ebbrezza dello Spirito”, di cui parlano quasi tutti i grandi autori di quel secolo.
Ora proprio qui si è realizzata la grande novità auspicata dal Padre de Lubac. Nel secolo trascorso è sorto ed è andato sempre più allargandosi un “movimento spirituale” che ha creato le basi per un rinnovamento della pneumatologia a partire dall’esperienza dello Spirito e dei suoi carismi. Parlo del fenomeno pentecostale e carismatico. Nei suoi primi cinquant’anni di vita, questo movimento, nato (come il Pietismo e il Metodismo ricordati sopra) in reazione alla tendenza razionalistica e liberale della teologia, ha volutamente ignorato la teologia ed è stato, a sua volta, ignorato (e perfino ridicolizzato!) dalla teologia.
Quando però, verso la metà del secolo scorso, esso è penetrato nelle Chiese tradizionali in possesso di una vasta strumentazione teologica e ha ricevuto una accoglienza di fondo dalle rispettive gerarchie, la teologia non ha più potuto ignorarlo. In un volume intitolato La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, i più noti teologi del momento, cattolici e protestanti, hanno preso in esame il significato del fenomeno pentecostale e carismatico per il rinnovamento della dottrina dello Spirito Santo .
Tutto questo ci interessa, in questo momento, solo dal punto di vista della conoscenza di Cristo. Quale conoscenza di Cristo va emergendo in questa nuova atmosfera spirituale e teologica? Il fatto più significativo non è la scoperta di nuove prospettive e nuove metodologie suggerite dalla filosofia del momento (strutturalismo, analisi linguistica ecc.), ma è la riscoperta di un dato biblico elementare: che Gesù Cristo è il Signore! La signoria di Cristo è un mondo nuovo nel quale si entra solo “per opera dello Spirito Santo”.
San Paolo parla di una conoscenza di Cristo di grado “superiore”, o, addirittura, “sublime”, che consiste nel conoscerlo e proclamarlo proprio “Signore” (cf. Fil 3, 8). È la proclamazione che, unita alla fede nella risurrezione di Cristo, fa di una persona un salvato: “Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesú è il signore!’, e con il cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9). Ora questa conoscenza è resa possibile solo dallo Spirito Santo: “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3). Ognuno, naturalmente, può dire con le labbra quelle parole, anche senza lo Spirito Santo, ma non sarebbe allora la cosa grande che abbiamo appena detto; non farebbe della persona un salvato.
Cosa c’è di speciale in questa affermazione da renderla così decisiva? Si può spiegare la cosa da diversi punti di vista, oggettivi o soggettivi. La forza oggettiva della frase: “Gesù è il Signore” sta nel fatto che essa rende presente la storia e in particolare il mistero pasquale. È la conclusione che scaturisce da due eventi: Cristo è morto per i nostri peccati; è risorto per la nostra giustificazione; perciò è il Signore. “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rom 14,9). Gli eventi che l’hanno preparata si sono come racchiusi in questa conclusione e in essa si rendono presenti e operanti. In questo caso la parola è davvero “la casa dell’essere” . La proclamazione: “Gesù è il Signore” è il seme da cui si è sviluppato tutto il kerigma e l’annuncio cristiano successivo.
Dal punto di vista soggettivo – cioè per quello che dipende da noi – la forza di quella proclamazione sta nel fatto che essa suppone anche una decisione. Chi la pronuncia decide del senso della sua vita. È come se dicesse: “Tu sei il mio Signore; io mi sottometto a te, io ti riconosco liberamente come il mio salvatore, il mio capo, il mio maestro, colui che ha tutti i diritti su di me”. Io appartengo a te più che a me stesso, perché tu mi hai ricomprato a caro prezzo (cf. 1 Cor 6, 19 s.).
L’aspetto di decisione insito nella proclamazione di Gesù “Signore” assume oggi una attualità particolare. Alcuni credono che sia possibile, e anzi necessario, rinunciare alla tesi della unicità di Cristo, per favorire il dialogo tra le varie religioni. Ora proclamare Gesù “Signore” significa proprio proclamare la sua unicità. Non per nulla l’articolo ci fa dire: “Credo in un solo Signore Gesù Cristo”. San Paolo scrive:
“E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi, sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” (1 Cor 8, 5-6).
L’Apostolo scriveva queste parole nel momento in cui la fede cristiana si affacciava, piccola e appena nata, su un mondo dominato da culti e religioni potenti e prestigiose. Il coraggio che occorre oggi per credere che Gesù è “l’unico Signore” è nulla in confronto a quello che occorreva allora. Ma il “potere dello Spirito” non è concesso se non a chi proclama Gesù Signore, in questa accezione forte delle origini. È un dato di esperienza. Solo dopo che un teologo o un annunciatore ha deciso di scommettere tutto su Gesù Cristo “unico Signore”, ma proprio tutto, anche a costo di essere “scacciato dalla sinagoga”, solo allora fa l’esperienza di una certezza e di un potere nuovi nella sua vita.
4. Dal Gesú “personaggio” al Gesú “persona”.

Questa riscoperta luminosa di Gesù come Signore è, dicevo, la novità e la grazia che Dio sta accordando, nei nostri tempi, alla sua Chiesa. Io mi sono accorto che quando interrogavo la Tradizione su tutti gli altri temi e parole della Scrittura, le testimonianze dei Padri si affollavano alla mente; quando ho provavo a interrogarla su questo punto, essa restava pressoché muta. Già nel III secolo, il titolo di Signore non è più compreso nel suo significato kerigmatico; fuori dell’ambito religioso ebraico, esso non era così significativo da esprimere a sufficienza l’unicità di Cristo. Origene considera “Signore” (Kyrios) il titolo proprio di chi è ancora allo stadio del timore; ad esso corrisponde, secondo lui, il titolo di “servo”, mentre a “Maestro” corrisponde quello di “discepolo” e di amico .
Si continua certamente a parlare di Gesù “Signore”, ma esso è diventato un nome di Cristo come gli altri, anzi più spesso uno degli elementi del nome completo di Cristo: “Nostro Signore Gesù Cristo”. Ma un conto è dire: “Nostro Signore Gesú Cristo” e un altro dire: “Gesú Cristo è il nostro Signore!”. Un indice di questo cambiamento è il modo in cui veniva tradotto nella Volgata il testo di Filippesi 2,11: “Omnis lingua confiteatur quia Dominus noster Iesus Christus in gloria est Dei Patris”, “Ogni lingua proclami che il Signore nostro Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”. Ma un conto è dire “nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre” e un altro dire: “Gesù Cristo è il nostro Signore, a gloria di Dio Padre”. In questo modo, che è quello delle traduzioni oggi in atto, non si pronuncia soltanto un nome, ma si fa una professione di fede.
Dove sta, in tutto ciò, il salto qualitativo che lo Spirito Santo ci fa fare nella conoscenza di Cristo? Sta nel fatto che la proclamazione di Gesù Signore è la porta che immette alla conoscenza del Cristo risorto e vivo! Non più un Cristo personaggio, ma persona; non più un insieme di tesi, di dogmi (e di corrispettive eresie), non più solo oggetto di culto e di memoria, fosse pure quella liturgica ed eucaristica, ma persona vivente e sempre presente nello Spirito.
Questa conoscenza spirituale ed esistenziale di Gesù come Signore, non induce a trascurare la conoscenza oggettiva, dommatica ed ecclesiale di Cristo, ma la rivitalizza. Grazie allo Spirito Santo, dice sant’Ireneo, la verità rivelata, “come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” . A uno di questi dogmi, quello che costituisce la seconda parte del nostro articolo del credo: “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, dedicheremo, a Dio piacendo, la nostra prossima meditazione.
Non saprei indicare una risoluzione pratica da prendere al termine di queste riflessioni migliore di quella che si legge all’inizio dell’Esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium:
“Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui”.
1.Cf. Johannes D. Zizioulas, Cristologia, pneumatologia e istituzioni ecclesiastiche: un punto di vista ortodosso, in “Cristianesimo nella storia” 2 , Bologna 1981, pp. 111-127.
2.Cf. S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
3.Tertulliano, La prescrizione degli eretici, 28, 1 (CC 1 p. 209).
4.F. Melantone, Loci theologici, in Corpus Reformatorum, Brunsvigae 1854, p. 85.
5.Ch. Wesley, Inno “Gloria a Dio, lode e amore” (Glory to God and Praise and Love).
6.Cf. A. Schweizer, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, München 1966,II, pp.620 s.
7.B. Pascal, Pensieri, 267 (ed. Brunschwicg).
8.Cf. H. de Lubac, Eségèse médiévale, II, 2, Parigi 1964, p.79.
9.H. de Lubac, Storia e Spirito, Roma 1971, p. 587.
10.AA.VV, Erfahrung und Theologie des Heiligen Geistes, Monaco 1974 (trad. it. La riscoperta dello Spirito, Milano 1977); cf. anche Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 2, Brescia 1982, pp. 157-224; J. Moltmann, Lo Spirito della vita, Brescia 1994; M. Welker, Lo Spirito di Dio. Teologia dello Spirito Santo, Brescia 1995, p. 17.
11.È la famosa affermazione del filosofo Martin Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995.
12.Cf. Origene, Commento a Giovanni, I, 29 (SCh 120, p. 158).
13.Cf. S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24,1.