giovedì 15 dicembre 2016

Lo Spirito Santo e il carisma del discernimento

seconda predica di Avvento 2016
di Padre Raniero Cantalamessa
9 dic 16


Continuiamo le nostre riflessioni sull’opera dello Spirito Santo nella vita della Chiesa e del cristiano. San Paolo menziona un carisma particolare dello Spirito chiamato ”discernimento degli spiriti” (1 Cor 12, 10). All’origine, questa espressione ha un senso ben preciso: indica il dono che permette di distinguere, tra le parole ispirate o profetiche pronunciate durante un’assemblea, quelle che vengono dallo Spirito di Cristo da quelle che provengono da altri spiriti e cioè o dallo spirito dell’uomo, o dallo spirito demoniaco, o dallo spirito del mondo.
Anche per l’evangelista Giovanni questo è il senso fondamentale. Il discernimento consiste nel “mettere alla prova le ispirazioni per saggiare se provengono veramente da Dio” (1 Gv 4,1-6). Per Paolo il criterio fondamentale di discernimento è la confessione di Cristo come “Signore” (1 Cor 12, 3); per Giovanni è la confessione che Gesù “è venuto nella carne”, cioè l’incarnazione. Già con lui il discernimento comincia ad essere usato in funzione teologica, come criterio per discernere le vere dalle false dottrine, l’ortodossia dall’eresia, ciò che diventerà centrale in seguito.
1. Il discernimento nella vita ecclesiale
Esistono due campi in cui si deve esercitare questo dono del discernimento della voce dello Spirito: quello ecclesiale e quello personale. Nel campo ecclesiale, il discernimento degli spiriti è esercitato in modo autorevole dal magistero, che deve però tener conto, tra gli altri criteri, anche del “senso dei fedeli”, il “sensus fidelium”.
Vorrei soffermarmi su un punto in particolare che può essere di aiuto nella discussione in atto nella Chiesa su alcuni problemi particolari. Si tratta del discernimento dei segni dei tempi. Il concilio ha dichiarato:
“È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” .
E’ chiaro che se la Chiesa deve scrutare i segni dei tempi alla luce del Vangelo, non è per applicare ai “tempi”, cioè alle situazioni e ai problemi nuovi che emergono nella società, i rimedi e le regole di sempre, bensì per dare ad essi risposte nuove, “adatte ad ogni generazione”, come dice il testo appena citato del concilio. La difficoltà che si incontra su questo cammino – e che va presa in tutta la sua serietà – è la paura di compromettere l’autorità del magistero, ammettendo dei cambiamenti nei suoi pronunciamenti.
C’è una considerazione che può aiutare, credo, a superare, in spirito di comunione, questa difficoltà. L’infallibilità che la Chiesa e il Papa rivendicano per sé, non è certamente di un grado superiore a quella che viene attribuita alla stessa Scrittura rivelata. Ora l’inerranza biblica assicura che lo Scrittore sacro esprime la verità nel modo e nel grado in cui essa poteva essere espressa nel momento in cui scrive. Vediamo che molte verità si formano lentamente e progressivamente, come quella dell’aldilà e della vita eterna. Anche nell’ambito morale, molti usi e leggi anteriori vengono, in seguito, abbandonate per fare posto a leggi e criteri più rispondenti allo spirito dell’Alleanza. Un esempio tra tutti: nell’Esodo, si afferma che Dio punisce le colpe dei padri nei figli (cf. Es 34, 7), ma Geremia ed Ezechiele diranno il contrario e cioè che Dio non punisce le colpe dei padri nei figli, ma che ognuno dovrà rispondere delle proprie azioni (cf. Ger 31, 29-30; Ez 18, 1 ss.).
Nell’Antico Testamento il criterio in base al quale si superano delle prescrizioni anteriori è quello di una migliore comprensione dello spirito dell’Alleanza e della Torah; nella Chiesa il criterio è quello di una continua rilettura del Vangelo alla luce delle domande nuove ad esso poste. “Scriptura cum legentibus crescit”, diceva san Gregorio Magno: la Scrittura cresce con coloro che la leggono .
Ora noi sappiamo che la regola costante dell’agire di Gesù nel Vangelo, in fatto di morale, si riassume in poche parole: “No al peccato, sì al peccatore”. Nessuno è più severo di lui nel condannare la ricchezza iniqua, ma si autoinvita a casa di Zaccheo e con il suo semplice andargli incontro lo cambia. Condanna l’adulterio, perfino quello del cuore, ma perdona l’adultera e le ridà speranza; riafferma l’indissolubilità del matrimonio, ma si intrattiene con la Samaritana che aveva avuto cinque mariti e le rivela il segreto che non aveva detto a nessun altro, in modo così esplicito: “ Sono io (il Messia) che ti parlo” (Gv 4, 26).
Se ci domandiamo come si giustifica teologicamente una distinzione così netta tra peccato e peccatore, la risposta è semplicissima: il peccatore è una creatura di Dio, fatta a sua immagine, e conserva la propria dignità, nonostante tutte le aberrazioni; il peccato, al contrario, non è opera di Dio, non viene da lui, ma dal nemico. È lo stesso motivo per cui Cristo si è fatto in tutto simile a noi, “fuorché nel peccato” (cf. Ebr 4,15).
Un fattore importante per assolvere questo compito di discernimento dei segni dei tempi è la collegialità dei vescovi. Essa, dice un testo della Lumen gentium, consente “di decidere in comune tutte le questioni più importanti, mediante una decisione che l’opinione dell’insieme permette di equilibrare” . L’esercizio effettivo della collegialità apporta al discernimento e alla soluzione dei problemi la varietà delle situazioni locali e dei punti di vista, le luci e i doni diversi, di cui ogni chiesa e ogni vescovo è portatore.
Abbiamo una commovente illustrazione di ciò proprio nel primo “concilio” della Chiesa, quello di Gerusalemme. Lì si diede ampio spazio ai due punti di vista in contrasto, quello dei giudaizzanti e quello favorevole all’apertura ai pagani; ci fu una “accesa discussione”, ma alla fine questo consentì loro di annunciare le decisioni con quella straordinaria formula: “Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi…” (At 15, 6 ss.).
Si vede da qui come lo Spirito guida la Chiesa in due modi diversi: a volte direttamente e carismaticamente, attraverso rivelazione e ispirazione profetica; altre volte, collegialmente, attraverso il paziente e difficile confronto, e perfino il compromesso, tra le parti e i punti di vista diversi. Il discorso di Pietro il giorno di Pentecoste e in casa di Cornelio è molto diverso da quello fatto in seguito, per giustificare la sua decisione davanti agli anziani (cf. At 11, 4-18; 15, 14); il primo è di tipo carismatico, il secondo è di tipo collegiale.
Bisogna dunque avere fiducia nella capacità dello Spirito di operare, alla fine, l’accordo, anche se a volte può sembrare che l’intero processo sfugga di mano. Ogni volta che i pastori delle Chiese cristiane, a livello locale o universale, si riuniscono per fare discernimento o prendere decisioni importanti, dovrebbe esserci nel cuore di ognuno la fiduciosa certezza che il Veni creator ha racchiuso nei nostri due versi: Ductore sic te praevio – vitemus omne noxium, “con te che ci fai da guida, eviteremo ogni male”.
2. Il discernimento nella vita personale
Passiamo ora al discernimento nella vita personale. Come carisma applicato ai singoli, il discernimento degli spiriti ha subito nei secoli una notevole evoluzione. All’origine, abbiamo visto, il dono doveva servire a discernere le ispirazioni altrui, di coloro che avevano parlato o profetizzato nell’assemblea; in seguito, esso è servito soprattutto a discernere le proprie ispirazioni.
L’evoluzione non è arbitraria; si tratta infatti dello stesso dono, anche se applicato a oggetti diversi. Gran parte di quello che gli autori spirituali hanno scritto intorno al “dono del consiglio”, si applica anche al carisma del discernimento. Per mezzo del dono, o carisma, del consiglio, lo Spirito Santo aiuta a valutare le situazioni e orientare le scelte, non solo in base a criteri di saggezza e prudenza umana, ma anche alla luce dei principi soprannaturali della fede.
Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso; “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro una certa scelta. In ciò egli si inserisce in una tradizione già affermata. Un autore medievale aveva scritto:
“Chi mai può esaminare le ispirazioni, se vengono da Dio, se non gli è stato dato da Dio il loro discernimento, così da poter esaminare esattamente e con retto giudizio i pensieri, le disposizioni, le intenzioni dello spirito? Il discernimento è come la madre di tutte le virtù ed è necessario a tutti nel guidare la vita, sia propria che altrui…Questo è dunque il discernimento: l’unione del retto giudizio e della virtuosa intenzione” .
Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri . Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine. Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.
Alla base del discernimento in sant’Ignazio di Loyola, c’è la dottrina della “santa indifferenza”. Essa consiste nel porsi in uno stato di totale disponibilità ad accogliere la volontà di Dio, rinunciando, in partenza, a ogni preferenza personale, come una bilancia pronta a inclinarsi dal lato dove sarà il peso maggiore. L’esperienza della pace interiore diventa così il criterio principale in ogni discernimento. È da ritenersi conforme al volere di Dio, la scelta, che dopo prolungata ponderazione e preghiera, è accompagnata da maggior pace del cuore.
In fondo si tratta di mettere in pratica il vecchio consiglio che il suocero Ietro diede a Mosè: “presentare le questioni a Dio” e attendere in preghiera la sua risposta (cf. Es 18, 19). Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).
Il pericolo di alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. L’evangelista Giovanni vede, come fattore decisivo nel discernimento, “l’unzione che viene dal Santo” (1 Gv 2,20). Anche sant’Ignazio ricorda che in certi casi è solo l’unzione dello Spirito Santo che permette di discernere ciò che è da farsi . C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” .
Il discernimento non è, nel suo fondo, né un’arte, né una tecnica, ma un carisma, cioè un dono dello Spirito! Gli aspetti psicologici hanno una grande importanza, ma “secondaria”, vengono cioè in secondo luogo. Un Padre antico scriveva:
“Purificare l’intelletto è solo dello Spirito Santo…Bisogna dunque con ogni mezzo, soprattutto con la pace dell’anima, far ‘riposare’ su noi lo Spirito Santo, per avere presso di noi, sempre accesa, la lampada della conoscenza. Se essa splende senza interruzione nei recessi dell’anima, non solo i meschini e tenebrosi assalti dei demoni divengono manifesti all’intelletto, ma restano anche del tutto privi di forza, smascherati, come sono, da quella santa e gloriosa luce. Per questo l’Apostolo dice: Non spegnete lo Spirito (1 Ts 5,19)” .
Lo Spirito Santo non diffonde, abitualmente, nell’anima questa sua luce in modo miracoloso e straordinario, ma molto semplicemente, attraverso la parola della Scrittura. I più importanti discernimenti della storia della Chiesa sono avvenuti così. Fu ascoltando la parola del vangelo: “Se vuoi essere perfetto…”, che Antonio capì quello che doveva fare e iniziò il monachesimo.
Fu nello stesso modo che Francesco d’Assisi ricevette la luce per iniziare il suo movimento di ritorno al vangelo. “Dopo che il Signore mi diede dei frati -scrive nel suo Testamento- nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo vangelo”. Glielo rivelò ascoltando, durante una Messa, il brano evangelico in cui Gesù dice ai discepoli di andare per il mondo “senza prendere nulla per il viaggio: né bastone né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche” (cf. Lc 9,3) .
Ricordo io stesso un piccolo caso del genere. Un uomo venne da me durante una missione, presentandomi il suo problema. Aveva un ragazzo di undici anni non ancora battezzato. “Se lo battezzo, diceva, succede un dramma in famiglia, perché mia moglie si è fatta testimone di Geova e non vuole sentire parlare di battezzarlo nella Chiesa; se non lo battezzo, non mi sento tranquillo in coscienza, perché quando ci siamo sposati eravamo tutti e due cattolici e abbiamo promesso di battezzare i nostri figli”. Un caso classico di discernimento. Gli dissi di tornare il giorno dopo, per darmi tempo di pregare e riflettere. L’indomani lo vedo venirmi incontro radioso e dirmi: “Ho trovato la soluzione, padre. Ho letto nella mia Bibbia l’episodio di Abramo e ho visto che quando Abramo portò a immolare suo figlio Isacco, non disse nulla a sua moglie!”. La parola di Dio lo aveva illuminato meglio di ogni consigliere umano. Battezzai io stesso il ragazzo e fu una grande gioia per tutti.
Accanto all’ascolto della Parola, la pratica più comune per esercitare il discernimento a livello personale è l’ esame di coscienza. Esso però non dovrebbe essere limitato alla sola preparazione alla confessione, ma diventare una capacità costante di mettersi sotto la luce di Dio e lasciarsi “scrutare” nell’intimo da lui. A causa di un esame di coscienza non praticato o non fatto per bene, anche la grazia della confessione diventa problematica: o non si sa cosa confessare, oppure è caricata troppo di un peso psicologico e pedagogico, cioè indirizzata solo al miglioramento della vita. Un esame di coscienza ridotto soltanto alla preparazione alla confessione fa individuare alcuni peccati, ma non porta a una relazione autentica, a tu per tu con Cristo. Diventa facilmente un elenco di imperfezioni, confessate per sentirsi più a posto, senza quell’ atteggiamento di reale pentimento che fa sperimentare la gioia di avere in Gesú “un così grande Redentore”.
3. Lasciarsi guidare dallo Spirito Santo
Il frutto concreto di questa meditazione deve essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla, se non è lo Spirito Santo, (di cui la nuvola, secondo i Padri, era figura ), a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).
Dobbiamo guardarci da una tentazione: quella di voler dare consigli allo Spirito Santo, anziché riceverli. “Chi ha diretto lo Spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti?” (Is 40,13). Lo Spirito Santo dirige tutti, e non è diretto da nessuno; guida, non è guidato. C’è un modo sottile di suggerire allo Spirito Santo quello che dovrebbe fare con noi e come dovrebbe guidarci. A volte, addirittura, prendiamo noi delle decisioni e le attribuiamo con disinvoltura allo Spirito Santo.
San Tommaso d’Aquino parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale, scrive, il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” . È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).
Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse fare di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa nello Spirito Santo” .
Concludiamo recitando la strofa del Veni creator che più direttamente ci parla della guida dello Spirito Santo:
Hostem repellas longius
Pacemque dones protinus
Ductore sic te praevio
Vitemus omne noxium
Allontana da noi il nemico
Donaci presto la pace.
Con te che ci fai da guida
Eviteremo ogni male. Così sia!
1.Gaudium et spes, 4.
2.S. Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 1.7, 8 (CCC 94).
3.Lumen gentium, 22.
4.Baldovino di Canterbury, Trattati, 6 (PL 204, 466).
5.Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
6.Cf. G. Bottereau, Indifference, in “Dictionnaire de Spiritualité , vol 7, coll. 1688 ss
7.S. Ignazio di Loyola, Costituzioni, 141. 414 (ed. cit., pp. 452.503).
8.Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
9.Diadodo di Fotica, Cento capitoli, 28 (SCh 5, pp. 87 ss.).
10.Celano, Vita prima, 22 (FF, 356).
11.S. Ambrogio, Sullo Spirito Santo, III, 4, 21; Sui sacramenti, I, 6, 22.
12.S. Tommaso d’Aquio, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
13.Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5.

mercoledì 7 dicembre 2016

Credo nello Spirito Santo

prima predica di Avvento 2016
di Padre Raniero Cantalamessa
2 dic 16



1. La novità del dopo concilio
Con la celebrazione del 50° della chiusura del Concilio Vaticano II, si è conclusa la prima fase del “dopo Concilio” e se ne apre un’altra. Se la prima fase è stata caratterizzata dai problemi relativi alla “recezione” del Concilio, questa nuova sarà caratterizzata, credo, dal completare e integrare il Concilio; in altre parole, dal rileggere il Concilio alla luce dei frutti da esso prodotti, mettendo in luce anche ciò che in esso è mancante, o presente solo in fase seminale.
La novità maggiore del dopo Concilio, nella teologia e nella vita della Chiesa, ha un nome preciso: lo Spirito Santo. Il Concilio non aveva certo ignorato la sua azione nella Chiesa, ma ne aveva parlato quasi sempre “en passant”, menzionandolo spesso, ma senza metterne in luce il ruolo centrale, neppure nella costituzione sulla Liturgia. In una conversazione, nel tempo in cui eravamo insieme nella Commissione Teologica Internazionale, ricordo che il Padre Yves Congar usò un’immagine forte a questo riguardo; parlò di uno Spirito Santo, sparso qua e là nei testi, come si fa con lo zucchero sui dolci che, però, non entra a far parte della composizione della pasta.
Il disgelo tuttavia era iniziato. Possiamo dire che l’intuizione di san Giovanni XXIII del concilio come di “una novella Pentecoste per la Chiesa” ha trovato la sua attuazione solo in seguito, a concilio concluso, come è avvenuto spesso, del resto, nella storia dei concili.
Nell’anno entrante si celebra il 50° anniversario dell’inizio, nella Chiesa Cattolica, del Rinnovamento carismatico. È uno dei tanti segni – il più evidente per la vastità del fenomeno – del risveglio dello Spirito e dei carismi nella Chiesa. Il Concilio aveva spianato la via alla sua accoglienza, parlando, nella Lumen gentium, della dimensione carismatica della Chiesa, insieme a quella istituzionale e gerarchica, e insistendo sulla importanza dei carismi . Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012, Benedetto XVI affermò:
“Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.
Contemporaneamente, la rinnovata esperienza dello Spirito Santo ha stimolato la riflessione teologica . Dopo il concilio si sono moltiplicati i trattati sullo Spirito Santo: tra i cattolici, quello dello stesso Congar , di K. Rahner , di H. Mühlen e di von Balthasar , tra i luterani quello di J. Moltmann e di M. Welker , e di tanti altri. Da parte del magistero c’è stata l’enciclica di san Giovanni Paolo II “Dominum et vivificantem”. In occasione del XVI centenario del concilio di Costantinopoli del 381, lo stesso Sommo Pontefice, nel 1982, promosse un congresso internazionale di Pneumatologia in Vaticano, i cui atti furono pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana, in due grossi volumi intitolati “Credo in Spiritum Sanctum” .
Negli ultimi anni stiamo assistendo a deciso un passo avanti in questa direzione. Verso la fine della sua carriera, Karl Barth fece un’affermazione provocatoria che era, in parte, anche una autocritica. Disse che in futuro si sarebbe sviluppata una diversa teologia, la “teologia del terzo articolo”. Nello stesso senso si espresse Karl Rahner. Per “terzo articolo” intendevano, naturalmente, l’articolo del credo sullo Spirito Santo. Il suggerimento non è caduto nel vuoto. Da esso ha preso avvio l’attuale corrente denominata, appunto, “Teologia del terzo articolo”.
Non penso che tale corrente voglia sostituirsi alla teologia tradizionale (sarebbe un errore se lo pretendesse), ma piuttosto affiancarla e vivificarla. Essa si propone di fare dello Spirito Santo non soltanto l’oggetto del trattato che lo riguarda, la Pneumatologia, ma per così dire l’atmosfera in cui si svolge tutta la vita della Chiesa e ogni ricerca teologica; fare del Paraclito “la luce dei dogmi”, secondo un pensiero caro ai Padri della Chiesa.
La trattazione più completa di questa recente corrente teologica è il volume di saggi apparso in inglese nel settembre scorso, con il titolo “Teologia del terzo articolo. Per una dommatica pneumatologica” . In esso, partendo dalla dottrina trinitaria della grande tradizione, teologi di diverse Chiese cristiane offrono il loro contributo, come premessa a una teologia sistematica più aperta allo Spirito e più rispondente alle esigenze attuali. È stato chiesto anche a me, come cattolico, di contribuirvi con un saggio su “Cristologia e pneumatologia nei primi secoli della Chiesa”.

2. Il credo letto dal basso
Le ragioni che giustificano questo nuovo orientamento teologico non sono soltanto di ordine dogmatico, ma anche storico. In altre parole, si capisce meglio cos’è, e cosa si propone, la teologia del terzo articolo se si tiene conto di come si è formato l’attuale simbolo Niceno-Costantinopolitano. Da questa storia emerge chiara l’utilità di leggere una volta tale simbolo “alla rovescia”, cioè partendo dalla fine, anziché dall’inizio.
Cerco di spiegare cosa intendo dire. Il simbolo Niceno-Costantinopolitano riflette la fede cristiana nella sua fase finale, dopo tutte le chiarificazioni e le definizioni conciliari, terminate nel V secolo. Riflette l’ordine raggiunto alla fine del processo di formulazione del dogma, ma non riflette il processo stesso. Non corrisponde, in altre parole, al processo con cui di fatto la fede della Chiesa si è storicamente formata, e neppure corrisponde al processo con cui si giunge oggi alla fede, intesa come fede viva in un Dio vivo.
Nel credo attuale, si parte da Dio Padre e creatore, da lui si passa al Figlio e alla sua opera redentrice, e infine allo Spirito Santo operante nella Chiesa. Nella realtà, la fede seguì il cammino inverso. Fu l’esperienza pentecostale dello Spirito che portò la Chiesa a scoprire chi era veramente Gesú e quale era stato il suo insegnamento. Con Paolo e soprattutto con Giovanni, si arriva a risalire da Gesú al Padre. È il Paraclito che, secondo la promessa di Gesú (Gv 16,13), conduce i discepoli alla “piena verità” su di lui e sul Padre.
San Basilio di Cesarea riassume in questi termini lo svolgimento della rivelazione e della storia della salvezza:
“Il cammino della conoscenza di Dio procede dall’unico Spirito, attraverso l’unico Figlio, fino all’unico Padre; inversamente, la bontà naturale, la santificazione secondo natura, la dignità regale, si diffondono dal Padre, per mezzo dell’Unigenito, fino allo Spirito” .
In altre parole, nell’ordine della creazione e dell’essere, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della redenzione e della conoscenza, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre. Possiamo dire che san Basilio è il vero iniziatore della teologia del terzo articolo! Nella tradizione occidentale tutto questo è espresso sinteticamente nella strofa finale dell’inno Veni creator. Rivolgendosi allo Spirito Santo, in essa la Chiesa prega dicendo:

Per te sciamus da Patrem,
noscamus atque Filium,
te utriusque Spiritum
credamus omni tempore.
Fa’ che per mezzo tuo conosciamo il Padre
che conosciamo in pari tempo il Figlio
e in te che sei lo Spirito di entrambi
crediamo fermamente oggi e sempre.

Questo non significa minimamente che il credo della Chiesa non sia perfetto o che vada riformato. Esso non può che essere così come è. È il modo di leggerlo che qualche volta è utile cambiare, per rifare il cammino con cui si è formato. Tra i due modi di utilizzare il credo – come prodotto compiuto, oppure nel suo stesso farsi -, c’è la stessa differenza che fare personalmente, di buon mattino, la scalata del Monte Sinai partendo dal monastero di Santa Caterina, oppure leggere il racconto di uno che ha fatto la scalata prima di noi.

3. Un commento al “terzo articolo”
Con questo intento vorrei, nelle tre meditazioni di Avvento, proporre delle riflessioni su alcuni aspetti dell’azione dello Spirito Santo, partendo appunto dal terzo articolo del credo che lo riguarda. Esso comprende tre grandi affermazioni. Partiamo dalla prima:

a. “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita”.
Il credo non dice che lo Spirito Santo è “il” Signore (poco sopra, nel credo, si proclama: “e credo in un solo Signore Gesù Cristo”!). Signore (nel testo originale, to kyrion, neutro!) indica qui la natura, non la persona; dice che cosa è, non chi è lo Spirito Santo. “Signore” vuole dire che lo Spirito Santo condivide la Signoria di Dio, che è dalla parte del Creatore, non delle creature; in altre parole, che è di natura divina.
A questa certezza la Chiesa era giunta basandosi non solo sulla Scrittura, ma anche sulla propria esperienza di salvezza. Lo Spirito, scriveva già sant’Atanasio, non può essere una creatura perché quando siamo toccati da lui (nei sacramenti, nella Parola, nella preghiera) facciamo l’esperienza di entrare in contatto con Dio in persona, non con un suo intermediario. Se ci divinizza, vuol dire che è lui stesso Dio .
Non si poteva, nel simbolo di fede, dire la stessa cosa in modo più esplicito, definendo lo Spirito Santo puramente e semplicemente “Dio e consustanziale con il Padre”, come si era fatto per il Figlio? Certamente, e fu proprio questa la critica mossa subito da alcuni vescovi, tra cui san Gregorio Nazianzeno, alla definizione. Per ragioni di opportunità e di pace, si preferì dire la stessa cosa con espressioni equivalenti, attribuendo allo Spirito, oltre che il titolo Signore, anche la isotimia, cioè l’uguaglianza con il Padre e il Figlio nell’adorazione e nella glorificazione della Chiesa.
L’espressione secondo cui lo Spirito Santo“dà la vita” è desunta da diversi passi del Nuovo Testamento: “È lo Spirito che dà la vita” (Gv 6, 63); “La legge dello Spirito dà la vita in Cristo Gesù” (Rm 8, 2); “L’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45); “La lettera uccide, lo Spirito dà la vita” (2 Cor 3, 6).
Ci poniamo tre domande. 
Primo, che vita dà lo Spirito Santo? Risposta: da la vita divina, la vita di Cristo. Una vita super-naturale, non una super-vita naturale; crea l’uomo nuovo, non il superuomo di Nietzsche “gonfio di vita”. 
Secondo, dove ci dà tale vita? Risposta: nel battesimo, che è presentato infatti come un “rinascere dallo Spirito” (Gv 3, 5), nei sacramenti, nella parola di Dio, nella preghiera, nella fede, nella sofferenza accettata in unione con Cristo. 
Terzo, come ci dà la vita, lo Spirito? Risposta: facendo morire le opere della carne! “Se con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della carne vivrete”, dice san Paolo in Romani 8,13.

b. “… e procede dal Padre (e dal Figlio) e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”
Passiamo ora alla seconda grande affermazione del credo sullo Spirito Santo. Finora il simbolo di fede ci ha parlato della natura dello Spirito, non ancora della persona; ci ha detto che cos’è, non chi è lo Spirito; ci ha parlato di ciò che accomuna lo Spirito Santo al Padre e al Figlio – il fatto di essere Dio e di dare la vita. Con la presente affermazione si passa a ciò che distingue lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Quello che lo distingue dal Padre è che procede da lui (altri, infatti, è colui che procede, altri colui dal quale egli procede!); quello che lo distingue dal Figlio è che procede dal Padre non per generazione, ma per spirazione; non come il concetto (logos) che procede dalla mente, ma come il soffio che procede dalla bocca.
È l’elemento centrale dell’articolo del credo, quello con cui si intendeva definire il posto che il Paraclito occupa nella Trinità. Questa parte del simbolo è nota soprattutto per il problema del Filioque, che è stato per un millennio l’oggetto principale di disaccordo tra l’Oriente e l’Occidente. Non mi soffermo su questo problema fin troppo discusso, anche perché io stesso ne ho parlato in questa sede, trattando dell’accordo di fede tra Oriente e Occidente nella Quaresima dell’anno scorso.
Mi limito a mettere in luce quello che possiamo ritenere di questa parte del simbolo e che arricchisce la nostra fede comune, al di là delle dispute teologiche. Esso ci dice che lo Spirito Santo non è un parente povero nella Trinità. Non è un semplice “modo di agire” di Dio, una energia o un fluido che pervade l’universo come pensavano gli stoici; è una “relazione sussistente”, dunque una persona.
Non tanto la “terza persona singolare”, quanto piuttosto “la prima persona plurale”. Il “Noi” del Padre e del Figlio . Quando, per esprimerci in modo umano, il Padre e il Figlio parlano dello Spirito Santo, non dicono “egli”, ma dicono “noi”, perché egli è l’unità del Padre e del Figlio. Qui si vede la fecondità straordinaria dell’intuizione di sant’Agostino per il quale il Padre è colui che ama, il Figlio l’amato e lo Spirito l’amore che li unisce, il dono scambievole. Su ciò si basa la credenza della Chiesa occidentale, secondo cui lo Spirito Santo procede “dal Padre e dal Figlio”
Lo Spirito Santo, nonostante tutto, resterà sempre il Dio nascosto, anche se ne conosciamo gli effetti. Egli è come il vento: non si sa da dove viene e dove va, ma si vedono gli effetti del suo passaggio. È come la luce che illumina tutto ciò che sta davanti, rimanendo essa stessa nascosta.
Per questo è la persona meno conosciuta e amata dei Tre, nonostante sia l’Amore in persona. Ci è più facile pensare al Padre e al Figlio come “persone”, ma ci è più difficile per lo Spirito. Non ci sono categorie umane che possono aiutarci a comprendere questo mistero. Per parlare di Dio Padre ci è di aiuto la filosofia che si occupa della causa prima (il Dio dei filosofi); per parlare del Figlio abbiamo l’analogia umana del rapporto umano padre – figlio e abbiamo anche la storia, essendosi il Verbo fatto carne. Per parlare dello Spirito Santo non abbiamo se non la rivelazione e l’esperienza. La stessa Scrittura parla di lui servendosi quasi sempre di simboli naturali: la luce, il fuoco, il vento, l’acqua, il profumo, la colomba.
Comprenderemo pienamente chi è lo Spirito Santo solo in paradiso. Anzi lo vivremo in una vita che non avrà fine, in un approfondimento che ci darà gioia immensa. Sarà come un fuoco dolcissimo che inonderà la nostra anima e la colmerà di beatitudine, come quando l’amore investe il cuore di una persona e questa si sente felice.

c. “… e ha parlato per mezzo dei profeti”
Siamo alla terza e ultima grande affermazione sullo Spirito Santo. Dopo aver professato la nostra fede nell’azione vivificatrice e santificatrice dello Spirito nella prima parte dell’articolo (lo Spirito che è Signore e dà la vita), ora si accenna anche alla sua azione carismatica. Di essa si nomina un carisma per tutti, quello che Paolo ritiene il primo per importanza, e cioè la profezia (cf 1 Cor 14).
Anche del carisma profetico si menziona solo un momento: lo Spirito che “ha parlato per mezzo dei profeti”, cioè nell’Antico Testamento. L’affermazione si basa su diversi testi della Scrittura, ma in particolare su 2 Pietro 21: “Mossi da Spirito Santo, parlarono alcuni uomini da parte di Dio”.

4. Un articolo da completare
La Lettera agli Ebrei dice che “dopo aver parlato un tempo per mezzo dei profeti, negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi nel Figlio” (cf Eb 1,1-2). Lo Spirito non ha smesso dunque di parlare per mezzo dei profeti; lo ha fatto con Gesú e lo fa anche oggi nella Chiesa. Questa ed altre lacune del simbolo vennero colmate a poco a poco nella pratica della Chiesa, senza bisogno, per questo, di cambiare il testo del credo (come avvenne purtroppo nel mondo latino, con l’aggiunta del Filioque). Se ne ha un esempio nell’epiclesi della liturgia ortodossa detta di san Giacomo, che prega così:
“Manda…il tuo santissimo Spirito, Signore e vivificatore, che siede con te, Dio e Padre, e con il tuo Figlio unigenito; che regna, consustanziale e coeterno. Egli ha parlato nella Legge, nei Profeti e nel Nuovo Testamento; è disceso in forma di colomba sul nostro Signore Gesù Cristo nel fiume Giordano, riposando su di lui, ed è disceso sui santi apostoli…il giorno della santa Pentecoste” .
Si resterebbe delusi perciò se si volesse trovare nell’articolo sullo Spirito Santo tutto, o anche solo il meglio, della rivelazione biblica su di lui. Questo mette in evidenza la natura e il limite di ogni definizione dommatica. Il suo scopo non è di dire tutto su un dato della fede, ma di tracciare un perimetro dentro il quale si deve collocare ogni affermazione su di esso e che nessuna affermazione può contraddire. A ciò si aggiunge, nel nostro caso, il fatto che l’articolo fu composto in un momento in cui la riflessione teologica sul Paraclito era appena agli inizi e ragioni storiche contingenti (il desiderio di pace dell’imperatore) imponevano, come ho accennato sopra, un compromesso tra le parti.
Noi però non siamo lasciati con le sole parole del credo sul Paraclito. La teologia, la liturgia e la pietà cristiana, sia in Oriente che in Occidente, hanno rivestito di “carne e sangue” le scarne affermazioni del simbolo di fede. Nella sequenza di Pentecoste il rapporto intimo e personale dello Spirito Santo con ogni singola anima (una dimensione completamente assente nel simbolo), è espresso da titoli come “padre dei poveri, luce dei cuori, dolce ospite dell’anima e dolcissimo sollievo”.
La stessa sequenza rivolge allo Spirito Santo una serie di invocazioni particolarmente belle e rispondenti alle nostre necessità. Concludiamo, proclamandole insieme, magari cercando di individuare tra esse quella che sentiamo più necessaria per noi:

Lava quod est sórdidum,
riga quod est áridum,
sana quod est sáucium.
Flecte quod est rígidum,
fove quod est frígidum,
rege quod est dévium.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò ch’è sviato.

1. Lumen gentium 12.
2. Cf. La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, a cura di Claus Hartmann e Heribert Muhlen, Milano 1975 (ed. originale, Erfahrung und Theolgie des Heiligen Geistes, München 1974).
3. Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 2, Brescia 1982, pp. 157-224
4. K. Rahner, Erfahrung des Geistes. Meditation auf Pfingsten, Herder, Friburgo i. Br. 1977.
5. H. Mühlen , Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Münster in W., 1963
6. U. von Balthasar, Spiritus Creator, Brescia 1972, p. 109
7. J. Moltmann, Lo Spirito della vita, , Brescia 1994, pp. 102-108.
8. M. Welker, Lo Spirito di Dio. Teologia dello Spirito Santo, Brescia 1995, p.62.
9. Editi da Libreria Editrice Vaticana nel 1983.
10.Third Article Theology: A Pneumatological Dogmatics, a cura di Myk Habets, Fortress Press, Settembre 2016.
11.Basilio di Cesarea, De Spiritu Sancto XVIII, 47 (PG 32 , 153).
12.S. Atanasio, Lettere a Serapione, I, 24 (PG 26, 585).
13.Cf H. Mühlen, Der Heilige Geist als Person. Ich – Du – Wir, Aschendorff, Münster in W. 1963. Il primo a definire lo Spirito Santo il «divino Noi» è stato S. Kierkegaard, Diario II A 731 (23 aprile 1838).
14.In A. Hänggi – I. Pahl, Prex Eucharistica, Fribourg, Suisse, 1968, p. 250.

domenica 11 settembre 2016

Opere che predicano 2. Trittico del CARRO DI FIENO, di Hieronymus Bosch,


Tipo di oggetto: pittura.
Autore: Hieronymus Bosch ('s-Hertogenbosch, Paesi Bassi 1450 circa - Habsburg Olanda 1516).
Data: 1516 circa.
Materia e tecnica: olio su tavola.

Dimensioni: 135 x 200 cm.
Conservato nel Museo del Prado di Madrid.


Descrizione:



Anta sinistra
Sull'anta sinistra vi sono quattro episodi distinti: in alto la caduta degli angeli ribelli, che mentre precipitano cambiano forma ed assumono l'aspetto di rospi e insetti, tema forse tratto dallo scritto Die Diersche Lucidarius, una ripresa del XIV secolo dell'Elucidanum di Anselmo, dove vengono paragonati gli angeli caduti a rospi; più in basso la creazione di Eva da una costola di Adamo; ancora più in basso e sulla destra il Peccato originale con il serpente dalla testa di donna e mani con artigli; infine la cacciata dei progenitori, dove la porta del Paradiso terrestre è coronata da una pianta irta di spine e con vari frutti, uno di questi beccato da un uccello come simbolo di lussuria, mentre il cardo è simbolo della tentazione dei sensi.

Le figure sono allungate, con profili sinuosi, che echeggiano il gotico internazionale.




Pannello centrale

Nel pannello centrale è il carro di fieno e la confusione che scatena il suo passaggio. In esso, forse memore della tradizione italiana dei Trionfi, l'artista rappresentò il proverbio, dedicato all'avidità, che dice: «Il mondo è come un carro di fieno, ciascuno ne arraffa quel che può».
Sulla cima del carro si svolge un concertino, a cui partecipano anche un angelo, che si rivolge in preghiera a Gesù apparso in cielo, e un demonio azzurro col naso a tromba e con la coda di pavone, simbolo di vanità. Dietro di loro si vede un cespuglio, in cui una coppia di contadini si bacia. La civetta è simbolo dell'inganno, mentre il demonio azzurro, con la sua dolce musica, rappresenta l'adescamento suadente al peccato. La civetta era infatti usata nella caccia per attirare altri uccelli col suo richiamo, mentre la tromba del demone rimanda al verbo olandese trompen che significa ingannare. Evidente è il richiamo a un'allegoria della vita, tra piaceri, tentazioni e interventi angelici. La visione pessimistica di Bosch è evidenziata dal fatto che il corteo del carro sia trascinato da diavoli verso destra, cioè verso il pannello con l'Inferno. In basso, attorno al carro, si dimenano i personaggi di ogni estrazione sociale per accaparrarsi il fieno, anche con forconi, scale e altri strumenti, finendo per litigare tra di loro (le due donne), se non addirittura uccidersi (l'uomo col cappello che sgozza un altro uomo), con lieve conforto dei religiosi, come il frate che cerca di trattenere, con poco slancio, la donna infuriata.
Dietro il carro si dispone un corteo, guidato dal Re di Francia, dal Papa e dall'Imperatore.

In primo piano si vede poi una serie di personaggi, singoli o in coppia, che raffigurano un'articolata casistica di peccati umani.



Anta di destra


Nell'anta di destra è raffigurato l'Inferno rappresentato come una città incandescente, con diavoli intenti alla costruzione di una torre, forse ripresa dalla biblica torre di Babele. Lo sfondo è acceso, come in altre opere dell'artista, dai bagliori delle fiamme eterne, un motivo che forse ha una base biografica, quando da adolescente l'artista assistette a un incendio notturno nella sua città, 's-Hertogenbosch.

(visitato al Museo del Prado, Mostra "El Bosco, La exposicion del V centenario, 19 ago 16).


domenica 21 agosto 2016

Opere che predicano 1: IL CALVARIO, di Rogier van der Weyden


Tipo di oggetto: pittura.
Autore: Rogier van der Weyden (Tournai1399 circa - Bruxelles 1464).
Data: tra 1457-1464.
Materia e tecnica: olio su tavola.
Dimensioni: 323,5 x 192 cm.
Collezione: Felipe II, 1555, Monastero Reale di San Lorenzo de El Escorial.
Località: Monastero Reale di San Lorenzo de El Escorial, Spagna.

Descrizione:

Al centro, la figura a grandezza naturale di Cristo crocifisso su una croce a forma di T, che è al riparo sotto una finta tettoia di colore rosso.
Ai lati, le figure della Vergine e San Giovanni si distinguono fortemente con i loro abiti bianchi, dando un'impressione quasi scultorea. 
Il drammatismo delle tre immagini e la plasticità delle sue forme, tipiche dell'artista, si vedono qui accentuate dalla grandezza della composizione e dalla forte agitazione delle vesti di Maria e San Giovanni, in netto contrasto rispetto allo sfondo molto statico.
L'artista disegna l'anatomia del corpo di Cristo con totale padronanza, mettendo in evidenza la trasparenza delle gocce di sangue attraverso velature sottili sopra le carni.
Opera restaurata di recente, unica nella sua scelta di colori forti, le figure con vestiti bianchi, quasi sculture marmoree, aiutano a contemplare il dono reale che Cristo compie sulla Croce.

(visitato al Monastero de El Escorial, 20 ago 16).

venerdì 29 luglio 2016

Ritiro Spirituale per Sacerdoti. Terza meditazione

GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA
RITIRO SPIRITUALE GUIDATO DAL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEI SACERDOTI
TERZA MEDITAZIONE
Basilica di San Paolo Fuori le Mura - Giovedì, 2 giugno 2016

Terza meditazione: il buon odore di Cristo
e la luce della sua misericordia

Speriamo che il Signore ci conceda quello che abbiamo chiesto nella preghiera: imitare l’esempio della pazienza di Gesù e con la pazienza superare le difficoltà.

Questa terza meditazione ha come titolo: “Il buon odore di Cristo e la luce della sua misericordia”.

In questo terzo incontro vi propongo di meditare sulle opere di misericordia, sia prendendone qualcuna, che sentiamo più legata al nostro carisma, sia contemplandole tutte insieme, vedendole con gli occhi misericordiosi della Madonna, che ci fanno scoprire “il vino che manca” e ci incoraggiano a “fare tutto quello che Gesù ci dirà” (cfr Gv 2,1-12), affinché la sua misericordia compia i miracoli di cui il nostro popolo ha bisogno.

Le opere di misericordia sono molto legate ai “sensi spirituali”. Pregando chiediamo la grazia di “sentire e gustare” il Vangelo in modo tale che ci renda sensibili per la vita. Mossi dallo Spirito, guidati da Gesù possiamo vedere già da lontano, con occhi di misericordia, chi giace a terra al bordo della strada, possiamo ascoltare le grida di Bartimeo, possiamo sentire come sente il Signore sul bordo del suo mantello il tocco timido ma deciso dell’emorroissa, possiamo chiedere la grazia di gustare con Lui sulla croce il sapore amaro del fiele di tutti i crocifissi, per sentire così l’odore forte della miseria – in ospedali da campo, in treni e barconi pieni di gente –; quell’odore che l’olio della misericordia non copre, ma che ungendolo fa sì che si risvegli una speranza.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, parlando delle opere di misericordia, racconta che santa Rosa da Lima, il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, santa Rosa da Lima senza esitare le disse: «Quando serviamo i poveri e i malati, siamo buon odore di Cristo» (n. 2449). Questo buon odore di Cristo – la cura dei poveri – è caratteristico della Chiesa, sempre lo è stato. Paolo centrò qui il suo incontro con “le colonne”, come lui le chiama, con Pietro, Giacomo e Giovanni. Essi «ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri» (Gal 2,10). Questo mi ricorda un fatto, che ho detto alcune volte: appena eletto Papa, mentre continuavano lo scrutinio, si è avvicinato a me un fratello Cardinale, mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non dimenticarti dei poveri”. Il primo messaggio che il Signore mi ha fatto arrivare in quel momento. Il Catechismo dice anche, in maniera suggestiva, che «gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi, a difenderli e a liberarli» (n. 2448). E questo senza ideologie, soltanto con la forza del Vangelo.

Nella Chiesa abbiamo avuto e abbiamo molte cose non tanto buone, e molti peccati, ma in questo di servire i poveri con opere di misericordia, come Chiesa abbiamo sempre seguito lo Spirito, e i nostri santi lo hanno fatto in modo molto creativo ed efficace. L’amore per i poveri è stato il segno, la luce che fa sì che la gente glorifichi il Padre. La nostra gente apprezza questo, il prete che si prende cura dei poveri, dei malati, che perdona i peccatori, che insegna e corregge con pazienza… Il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona. E non è tanto per la ricchezza in sé, ma perché il denaro ci fa perdere la ricchezza della misericordia. Il nostro popolo riconosce “a fiuto” quali peccati sono gravi per il pastore, quali uccidono il suo ministero perché lo fanno diventare un funzionario, o peggio un mercenario, e quali invece sono, non direi peccati secondari - perché non so se teologicamente si può dire questo -, ma peccati che si possono sopportare, caricare come una croce, finché il Signore alla fine li purificherà, come farà con la zizzania. Invece ciò che attenta contro la misericordia è una contraddizione principale. Attenta contro il dinamismo della salvezza, contro Cristo che “si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà” (cfr 2 Cor 8,9). E questo è così perché la misericordia cura “perdendo qualcosa di sé”: un brandello di cuore rimane con la persona ferita; un tempo della nostra vita, in cui avevamo voglia di fare qualcosa, lo perdiamo quando lo regaliamo all’altro, in un’opera di misericordia.

Perciò non è questione che Dio mi usi misericordia in qualche mancanza, come se nel resto io fossi autosufficiente, o che ogni tanto io compia qualche atto particolare di misericordia verso un bisognoso. La grazia che chiediamo in questa preghiera è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Per noi sacerdoti e vescovi, che lavoriamo con i Sacramenti, battezzando, confessando, celebrando l’Eucaristia…, la misericordia è il modo di trasformare tutta la vita del popolo di Dio in “sacramento”. Essere misericordioso non è solo un modo di essere, ma ilmodo di essere. Non c’è altra possibilità di essere sacerdote. Il Cura Brochero diceva: «Il sacerdote che non prova molta compassione dei peccatori è un mezzo sacerdote. Questi stracci benedetti che porto addosso non sono essi che mi fanno sacerdote; se non porto nel mio petto la carità, non sono nemmeno cristiano».

Vedere quello che manca per porre rimedio immediatamente, e meglio ancora prevederlo, è proprio dello sguardo di un padre. Questo sguardo sacerdotale – di chi fa le veci del padre nel seno della Chiesa Madre – che ci porta a vedere le persone nell’ottica della misericordia, è quello che si deve insegnare a coltivare a partire dal seminario e deve alimentare tutti i piani pastorali. Desideriamo e chiediamo al Signore uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di “quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la nostra gente” per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a loro. Perché, come dice il Documento di Aparecida, citando sant’Alberto Hurtado, «nelle nostre opere, il nostro popolo sa che comprendiamo il suo dolore» (n. 386).

La prova di questa comprensione del nostro popolo è che nelle nostre opere di misericordia siamo sempre benedetti da Dio e troviamo aiuto e collaborazione nella nostra gente. Non così per altri tipi di progetti, che a volte vanno bene e altre no, e alcuni non si rendono conto del perché non funziona e si rompono la testa cercando un nuovo, ennesimo piano pastorale, quando si potrebbe semplicemente dire: non funziona perché gli manca misericordia, senza bisogno di entrare in particolari. Se non è benedetto è perché gli manca misericordia. Manca quella misericordia che appartiene più a un ospedale da campo che a una clinica di lusso, quella misericordia che, apprezzando qualcosa di buono, prepara il terreno ad un futuro incontro della persona con Dio invece di allontanarla con una critica puntuale…

Vi propongo una preghiera con la peccatrice perdonata (cfr Gv 8,3-11), per chiedere la grazia di essere misericordiosi nella Confessione, e un’altra sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Mi commuove sempre il passo del Signore con la donna adultera, come, quando non la condannò, il Signore “mancò” rispetto alla legge; in quel punto sul quale gli chiedevano di pronunciarsi – “bisogna lapidarla o no?” – non si pronunciò, non applicò la legge. Fece finta di non capire – anche in questo il Signore è un maestro per tutti noi - e, in quel momento, tirò fuori un’altra cosa. Iniziò così un processo nel cuore della donna che aveva bisogno di queste parole: «Neanch’io ti condanno». Tendendole la mano la fece alzare e questo le permise di incontrarsi con uno sguardo pieno di dolcezza che le cambiò il cuore. Il Signore tende la mano alla figlia di Giairo: “Datele da mangiare”. Al ragazzo morto, a Nain: “Alzati”, e lo dà alla sua mamma. E a questa peccatrice: “Alzati”. Il Signore ci rimette proprio come Dio ha voluto che l’uomo stia: in piedi, alzato, mai per terra. A volte mi dà un misto di pena e di indignazione quando qualcuno si premura di spiegare l’ultima raccomandazione, il «non peccare più». E utilizza questa frase per “difendere” Gesù e che non rimanga il fatto che si è scavalcata la legge. Penso che le parole che usa il Signore sono tutt’uno con le sue azioni. Il fatto di chinarsi a scrivere per terra due volte, creando una pausa prima di ciò che dice a quelli che vogliono lapidare la donna e, prima di ciò che dice a lei, ci parla di un tempo che il Signore si prende per giudicare e perdonare. Un tempo che rimanda ciascuno alla propria interiorità e fa sì che quelli che giudicano si ritirino.

Nel suo dialogo con la donna il Signore apre altri spazi: uno è lo spazio della non condanna. Il Vangelo insiste su questo spazio che è rimasto libero. Ci colloca nello sguardo di Gesù e ci dice che “non vede nessuno intorno ma solo la donna”. E poi Gesù stesso fa guardare intorno la donna con la domanda: “Dove sono quelli che ti classificavano?” (la parola è importante, perché dice di ciò che tanto rifiutiamo come il fatto che ci etichettino e ci facciano una caricatura…). Una volta che la fa guardare quello spazio libero dal giudizio altrui, le dice che nemmeno lui lo invade con le sue pietre: «Neanch’io ti condanno». E in quel momento stesso le apre un altro spazio libero: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Il comandamento si dà per l’avvenire, per aiutare ad andare, per “camminare nell’amore”. Questa è la delicatezza della misericordia che guarda con pietà il passato e incoraggia per il futuro. Questo «non peccare più» non è qualcosa di ovvio. Il Signore lo dice “insieme con lei”, la aiuta ad esprimere in parole ciò che lei stessa sente, quel “no” libero al peccato che è come il “sì” di Maria alla grazia. Il “no” viene detto in relazione alla radice del peccato di ciascuno. Nella donna si trattava di un peccato sociale, del peccato di qualcuno a cui la gente si avvicinava o per stare con lei o per lapidarla. Non c’era un altro tipo di vicinanza con questa donna. Perciò il Signore non solo le sgombra la strada ma la pone in cammino, perché smetta di essere “oggetto” dello sguardo altrui, perché sia protagonista. Il “non peccare” non si riferisce solo all’aspetto morale, io credo, ma a un tipo di peccato che non la lascia fare la sua vita. Anche al paralitico di Betzatà Gesù dice: «Non peccare più» (Gv 5,14); ma costui, che si giustificava per le cose tristi che gli succedevano, che aveva una psicologia da vittima - la donna no -, lo punge un po’ con quel «perché non ti accada qualcosa di peggio». Il Signore approfitta del suo modo di pensare, di ciò che lui teme, per farlo uscire dalla sua paralisi. Lo smuove con la paura, diciamo. Così, ognuno di noi deve ascoltare questo «non peccare più» in maniera intima e personale.

Questa immagine del Signore che mette in cammino le persone è molto appropriata: Egli è il Dio che si mette a camminare con il suo popolo, che manda avanti e accompagna la nostra storia. Perciò, l’oggetto a cui si dirige la misericordia è ben preciso: si rivolge a ciò che fa sì che un uomo e una donna non camminino nel loro posto, con i loro cari, con il proprio ritmo, verso la meta a cui Dio li invita ad andare. La pena, ciò che commuove, è che uno si perda, o che resti indietro, o che sbagli per presunzione; che sia fuori posto, diciamo; che non sia pronto per il Signore, disponibile per il compito che Lui vuole affidargli; che uno non cammini umilmente alla presenza del Signore (cfr Mi 6,8), che non cammini nella carità (cfr Ef 5,2).

Lo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi

Adesso passiamo allo spazio del confessionale, dove la verità ci fa liberi.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci fa vedere il confessionale come un luogo in cui la verità ci rende liberi per un incontro. Dice così: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell'amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). E ci ricorda che «il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all'intenzione e alla carità di Cristo» (n. 1466).

Segno e strumento di un incontro. Questo siamo. Attrazione efficace per un incontro. Segno vuol dire che dobbiamo attrarre, come quando uno fa dei segni per richiamare l’attenzione. Un segno dev’essere coerente e chiaro, ma soprattutto comprensibile. Perché ci sono segni che sono chiari solo per gli specialisti, e questi non servono. Segno e strumento. Lo strumento si gioca la vita nella sua efficacia -serve o non serve? -, nell’essere disponibile e incidere nella realtà in modo preciso, adeguato. Siamo strumento se veramente la gente si incontra con il Dio misericordioso. A noi spetta “far che si incontrino”, che si trovino faccia a faccia. Quello che poi faranno è cosa loro. C’è un figlio prodigo nel porcile e un padre che tutte le sere sale in terrazza per vedere se arriva; c’è una pecora perduta e un pastore che è andato a cercarla; c’è un ferito abbandonato al bordo della strada e un samaritano che ha il cuore buono. Qual è, dunque, il nostro ministero? Essere segni e strumenti perché questi si incontrino. Teniamo ben chiaro che noi non siamo né il padre, né il pastore, né il samaritano. Piuttosto siamo accanto agli altri tre, in quanto peccatori. Il nostro ministero dev’essere segno e strumento di tale incontro. Perciò ci poniamo nell’ambito del mistero dello Spirito Santo, che è Colui che crea la Chiesa, Colui che fa l’unità, Colui che ravviva ogni volta l’incontro.

L’altra cosa propria di un segno e di uno strumento è di non essere autoreferenziale, per dirlo in maniera difficile. Nessuno si ferma al segno una volta che ha compreso la cosa; nessuno si ferma a guardare il cacciavite o il martello, ma guarda il quadro che è stato ben fissato. Siamo servi inutili. Ecco, strumenti e segni che furono molto utili per altri due che si unirono in un abbraccio, come il padre col figlio.

La terza caratteristica propria del segno e dello strumento è la loro disponibilità. Che sia pronto all’uso lo strumento, che sia visibile il segno. L’essenza del segno e dello strumento è di essere mediatori, disponibili. Forse qui si trova la chiave della nostra missione in questo incontro della misericordia di Dio con l’uomo. Probabilmente è più chiaro usare un termine negativo. Sant’Ignazio parlava di “non essere impedimento”. Un buon mediatore è colui che facilita le cose e non pone impedimenti. Nella mia terra c’era un grande confessore, il padre Cullen, che si sedeva nel confessionale e, quando non c’era gente, faceva due cose: una era aggiustare palloni di cuoio per i ragazzi che giocavano a calcio, l’altra era leggere un grande dizionario di cinese. Era stato tanto tempo in Cina, e voleva conservare la lingua. Diceva lui che quando la gente lo vedeva in attività così inutili, come aggiustare vecchi palloni, e così a lungo termine, come leggere un dizionario di cinese, pensava: “Posso avvicinarmi a parlare un po’ con questo prete perché si vede che non ha niente da fare”. Era disponibile per l’essenziale. Lui aveva un orario per il confessionale, ma era lì. Evitava l’impedimento di avere sempre l’aspetto di uno molto occupato. E’ qui il problema. La gente non si avvicina quando vede il suo pastore molto, molto occupato, sempre impegnato.

Ognuno di noi ha conosciuto buoni confessori. Bisogna imparare dai nostri buoni confessori, di quelli ai quali la gente si avvicina, quelli che non la spaventano e sanno parlare finché l’altro racconta quello che è successo, come Gesù con Nicodemo. E’ importante capire il linguaggio dei gesti; non chiedere cose che sono evidenti per i gesti. Se uno si avvicina al confessionale è perché è pentito, c’è già pentimento. E se si avvicina è perché ha il desiderio di cambiare. O almeno desidera il desiderio, e se la situazione gli sembra impossibile (ad impossibilia nemo tenetur, come dice il brocardo, nessuno è obbligato a fare l’impossibile). Il linguaggio dei gesti. Ho letto nella vita di un santo recente di questi tempi che, poveretto, soffriva nella guerra. C’era un soldato che stava per essere fucilato e lui andò a confessarlo. E si vede che quel tale era un po’ libertino, faceva tante feste con le donne… “Ma tu sei pentito di questo?” - “No, era tanto bello, padre”. E questo santo non sapeva come uscirne. C’era lì il plotone per fucilarlo, e allora gli disse: “Di’ almeno: ti rammarichi di non essere pentito?” - “Questo sì” - “Ah, va bene!”. Il confessore cerca sempre la strada, e il linguaggio dei gesti è il linguaggio delle possibilità per arrivare al punto.

Bisogna imparare dai buoni confessori, quelli che hanno delicatezza con i peccatori e ai quali basta mezza parola per capire tutto, come Gesù con l’emorroissa, e proprio in quel momento esce da loro la forza del perdono. Io sono rimasto tanto edificato da uno dei Cardinali della Curia, che a priori io pensavo che fosse molto rigido. E lui, quando c’era un penitente che aveva un peccato in modo che gli dava vergogna a dirlo e incominciava con una parola o due, subito capiva di che cosa si trattava e diceva: “Vada avanti, ho capito, ho capito!”. E lo fermava, perché aveva capito. Questa è delicatezza. Ma quei confessori – perdonatemi – che domandano e domandano…: “Ma dimmi, per favore…”. Tu hai bisogno di tanti dettagli per perdonare oppure “ti stai facendo il film”? Quel cardinale mi ha edificato tanto. La completezza della confessione non è una questione matematica - quante volte? Come? dove?... -. A volte la vergogna si nasconde più davanti al numero che davanti al peccato stesso. Ma per questo bisogna lasciarsi commuovere dinanzi alla situazione della gente, che a volte è un miscuglio di cose, di malattia, di peccato, di condizionamenti impossibili da superare, come Gesù che si commuoveva vedendo la gente, lo sentiva nelle viscere, nelle budella e perciò guariva e guariva anche se l’altro “non lo chiedeva bene”, come quel lebbroso, o girava intorno, come la Samaritana, che era come la pavoncella: faceva il verso da una parte ma aveva il nido dall’altra. Gesù era paziente.

Bisogna imparare dai confessori che sanno fare in modo che il penitente senta la correzione facendo un piccolo passo avanti, come Gesù, che dava una penitenza che bastava, e sapeva apprezzare chi ritornava a ringraziare, chi poteva ancora migliorare. Gesù faceva prendere il lettuccio al paralitico, o si faceva pregare un po’ dai ciechi o dalla donna sirofenicia. Non gli importava se dopo non badavano più a Lui, come il paralitico alla piscina di Betzatà, o se raccontavano cose che aveva detto loro di non raccontare e poi sembrava che il lebbroso fosse Lui, perché non poteva entrare nei villaggi o i suoi nemici trovavano motivi per condannarlo. Lui guariva, perdonava, dava sollievo, riposo, faceva respirare alla gente un alito dello Spirito consolatore.

Questo che dirò adesso l’ho detto tante volte, forse qualcuno di voi lo ha sentito. Ho conosciuto, a Buenos Aires, un frate cappuccino - vive ancora -, poco più giovane di me, che è un grande confessore. Davanti al confessionale ha sempre la fila, tanta gente - tutti: gente umile, gente benestante, preti, suore, una fila - un susseguirsi di persone, tutto il giorno a confessare. E lui è un grande perdonatore. Sempre trova la strada per perdonare e per far fare un passo avanti. E’ un dono dello Spirito. Ma, a volte, gli viene lo scrupolo di aver perdonato troppo. E allora una volta parlando mi ha detto: “A volte ho questo scrupolo”. E io gli ho chiesto: “E cosa fai quando hai questo scrupolo?”. “Vado davanti al tabernacolo, guardo il Signore, e gli dico: Signore, perdonami, oggi ho perdonato molto. Ma che sia chiaro: la colpa è tua perché sei stato tu a darmi il cattivo esempio! Cioè la misericordia la migliorava con più misericordia.

Infine, su questo tema della Confessione, due consigli. Uno, non abbiate mai lo sguardo del funzionario, di quello che vede solo “casi” e se li scrolla di dosso. La misericordia ci libera dall’essere un prete giudice-funzionario, diciamo, che a forza di giudicare “casi” perde la sensibilità per le persone e per i volti. Io ricordo quando ero in II Teologia, sono andato con i miei compagni a sentire l’esame di “audiendas”, che si faceva al III Teologia, prima dell’ordinazione. Andammo per imparare un po’, sempre si imparava. E una volta, ricordo che ad un compagno hanno fatto una domanda, era sulla giustizia, de iure, ma tanto intricata, tanto artificiale… E quel compagno disse con molta umiltà: “Ma padre, questo non si trova nella vita” - “Ma si trova nei libri!”. Quella morale “dei libri”, senza esperienza. La regola di Gesù è “giudicare come vogliamo essere giudicati”. In quella misura intima che si ha per giudicare se si viene trattati con dignità, se si viene ignorati o maltrattati, se si è stati aiutati a mettersi in piedi…. Questa è la chiave per giudicare gli altri. Facciamo attenzione che il Signore ha fiducia in questa misura che è così soggettivamente personale. Non tanto perché tale misura sia “la migliore”, ma perché è sincera e, a partire da essa, si può costruire una buona relazione. L’altro consiglio: non siate curiosi nel confessionale. L’ho già accennato. Racconta santa Teresina che, quando riceveva le confidenze delle sue novizie, si guardava bene dal chiedere come erano andate poi le cose. Non curiosava nell’anima delle persone (cfr Storia di un’anima, Manoscritto C, Alla madre Gonzaga, c. XI 32r). E’ proprio della misericordia “coprire con il suo manto”, coprire il peccato per non ferire la dignità. E’ bello quel passo dei due figli di Noè, che coprirono con il mantello la nudità del padre che si era ubriacato (cfr Gen 9,23).

La dimensione sociale delle opere di misericordia

Adesso passiamo a dire due parole sulla dimensione sociale delle opere di misericordia.

Alla fine degli Esercizi, sant’Ignazio pone la “Contemplazione per giungere all’amore”, che congiunga ciò che si è vissuto nella preghiera con la vita quotidiana. E ci fa riflettere su come l’amore va posto più nelle opere che nelle parole. Tali opere sono le opere di misericordia, quelle che il Padre «ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,10), quelle che lo Spirito ispira a ciascuno per il bene comune (cfr 1 Cor 12,7). Mentre ringraziamo il Signore per tanti benefici ricevuto dalla sua bontà, chiediamo la grazia di portare a tutti gli uomini la misericordia che ha salvato noi.

Vi propongo, in questa dimensione sociale, di meditare su alcuni dei passi conclusivi dei Vangeli. Lì, il Signore stesso stabilisce tale connessione tra ciò che abbiamo ricevuto e ciò che dobbiamo dare. Possiamo leggere queste conclusioni in chiave di “opere di misericordia”, che pongono in atto il tempo della Chiesa nel quale Gesù risorto vive, accompagna, invia e attira la nostra libertà, che trova in Lui la sua realizzazione concreta e rinnovata ogni giorno.

La conclusione del Vangelo di Matteo, ci dice che il Signore invia gli apostoli e dice loro: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (cfr 28,20). Questo “insegnare a chi non sa” è in sé stessa una delle opere di misericordia. E si rifrange come la luce nelle altre opere: in quelle di Matteo 25, che consistono piuttosto nelle opere cosiddette corporali, e in tutti i comandamenti e consigli evangelici, di “perdonare”, “correggere fraternamente”, consolare chi è triste, sopportare le persecuzioni, e così via.

Marco termina con l’immagine del Signore che “collabora” con gli apostoli e “conferma la Parola con i segni che la accompagnano” (cfr 16,20). Questi “segni” hanno la caratteristica delle opere di misericordia. Marco parla, tra l’altro, di guarire i malati e scacciare gli spiriti cattivi (cfr 16,17-18).

Luca continua il suo Vangelo con il Libro degli “Atti” – praxeis – degli Apostoli, narrando il loro modo di procedere e le opere che compiono, guidati dallo Spirito.

Giovanni termina parlando delle «molte altre cose» (21,25) o «segni» (20,30) che Gesù fece. Gli atti del Signore, le sue opere, non sono meri fatti ma sono segni nei quali, in modo personale e unico per ciascuno, si mostrano il suo amore e la sua misericordia.

Possiamo contemplare il Signore che ci invia a questo lavoro con l’immagine di Gesù misericordioso, così come fu rivelata a Suor Faustina. In quella immagine possiamo vedere la Misericordia come un’unica luce che viene dall’interiorità di Dio e che, passando attraverso il cuore di Cristo, esce diversificata, con un colore proprio per ogni opera di misericordia.

Le opere di misericordia sono infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape. Perché la misericordia è feconda e inclusiva. Queste due caratteristiche importanti: la misericordia è feconda e inclusiva. E’ vero che di solito pensiamo alle opere di misericordia ad una ad una, e in quanto legate ad un’opera: ospedali per i malati, mense per quelli che hanno fame, ostelli per quelli che sono per la strada, scuole per quelli che hanno bisogno di istruzione, il confessionale e la direzione spirituale per chi necessita di consiglio e di perdono… Ma se le guardiamo insieme, il messaggio è che l’oggetto della misericordia è la vita umana stessa nella sua totalità. La nostra vita stessa in quanto “carne” è affamata e assetata, bisognosa di vestito, di casa, di visite, come pure di una sepoltura degna, cosa che nessuno può dare a sé stesso. Anche il più ricco, quando muore, si riduce a una miseria e nessuno porta dietro al suo corteo il camion del trasloco. La nostra vita stessa, in quanto “spirito”, ha bisogno di essere educata, corretta, incoraggiata, consolata. Parola molto importante, questa, nella Bibbia: pensiamo al Libro della consolazione di Israele, nel profeta Isaia. Abbiamo bisogno che altri ci consiglino, ci perdonino, ci sostengano e preghino per noi. La famiglia è quella che pratica queste opere di misericordia in maniera così adatta e disinteressata che non si nota, ma basta che in una famiglia con bambini piccoli manchi la mamma perché tutto vada in miseria. La miseria più assoluta e crudelissima è quella di un bambino per la strada, senza genitori, in balia degli avvoltoi.

Abbiamo chiesto la grazia di essere segno e strumento; ora si tratta di “agire”, e non solo di compiere gesti ma di fare opere, di istituzionalizzare, di creare una cultura della misericordia, che non è lo stesso di una cultura della beneficienza, dobbiamo distinguere. Messi all’opera, sentiamo immediatamente che è lo Spirito Colui che spinge, che manda avanti queste opere. E lo fa utilizzando i segni e gli strumenti che vuole, benché a volte non siano in sé stessi i più adatti. Di più, si direbbe che per esercitare le opere di misericordia lo Spirito scelga piuttosto gli strumenti più poveri, quelli più umili e insignificanti, che hanno loro stessi più bisogno di quel primo raggio della misericordia divina. Questi sono quelli che meglio si lasciano formare e preparare per realizzare un servizio di vera efficacia e qualità. La gioia di sentirsi “servi inutili”, per coloro che il Signore benedice con la fecondità della sua grazia, e che Lui stesso in persona fa sedere alla sua mensa e ai quali offre l’Eucaristia, è una conferma che si sta lavorando nelle sue opere di misericordia.

Al nostro popolo fedele piace raccogliersi intorno alle opere di misericordia. Basta venire ad una delle udienze generali del mercoledì e vediamo quanti ce ne sono: gruppi di persone che si mettono insieme per fare opere di misericordia. Tanto nelle celebrazioni – penitenziali e festive – quanto nell’azione solidale e formativa, la nostra gente si lascia radunare e pascolare in un modo che non tutti riconoscono e apprezzano, malgrado falliscano tanti altri piani pastorali centrati su dinamiche più astratte. La presenza massiccia del nostro popolo fedele nei nostri santuari e pellegrinaggi, presenza anonima per eccesso di volti e per desiderio di farsi vedere solo da Colui e Colei che li guardano con misericordia, come pure per la collaborazione numerosa che, sostenendo col suo impegno tante opere solidali, dev’essere motivo di attenzione, di apprezzamento e di promozione da parte nostra. E per me è stata una sorpresa come qui in Italia queste organizzazioni siano tanto forti e radunino tanto il popolo.

Come sacerdoti, chiediamo due grazie al Buon Pastore: quella di lasciarci guidare dal sensus fidei del nostro popolo fedele, e anche dal suo “senso del povero”. Entrambi i “sensi” sono legati al “sensus Christi”, di cui parla san Paolo, all’amore e alla fede che la nostra gente ha per Gesù.

Concludiamo recitando l’Anima Christi, che è una bella preghiera per chiedere misericordia al Signore venuto nella carne, che ci usa misericordia con i suoi stessi Corpo e Anima. Gli chiediamo che ci usi misericordia insieme con il suo popolo: alla sua anima chiediamo “santificaci”; il suo corpo supplichiamo “salvaci”; il suo sangue imploriamo “inebriaci”, toglici ogni altra sete che non sia di Te; all’acqua del suo costato chiediamo “lavaci”; la sua passione imploriamo “confortaci”; consola il tuo popolo; Signore crocifisso, nelle tue piaghe, Ti supplichiamo, “nascondici”… Non permettere che il tuo popolo, Signore, si separi da Te. Che niente e nessuno ci separi dalla tua misericordia, la quale ci difende dalle insidie del nemico maligno. Così potremo cantare le misericordie del Signore insieme a tutti i tuoi santi quando ci comanderai di venire a Te.

[Preghiera dell’Anima Christi]

Ho sentito qualche volta commenti dei sacerdoti che dicono: “Ma questo Papa ci bastona troppo, ci rimprovera”. E qualche bastonata, qualche rimprovero c’è. Ma devo dire che sono rimasto edificato da tanti sacerdoti, tanti preti bravi! Da quelli – ne ho conosciuti – che, quando non c’era la segreteria telefonica, dormivano con il telefono sul comodino, e nessuno moriva senza i sacramenti; chiamavano a qualsiasi ora, e loro si alzavano e andavano. Bravi sacerdoti! E ringrazio il Signore per questa grazia. Tutti siamo peccatori, ma possiamo dire che ci sono tanti bravi, santi sacerdoti che lavorano in silenzio e nascosti. A volte c’è uno scandalo, ma noi sappiamo che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.

E ieri ho ricevuto una lettera, l’ho lasciata lì, con quelle personali. L’ho aperta prima di venire e credo che sia stato il Signore a suggerirmelo. E’ di un parroco in Italia, parroco di tre paesini. Credo che ci farà bene sentire questa testimonianza di un nostro fratello.

E’ scritta il 29 maggio, da pochi giorni.

“Perdoni il disturbo. Colgo l’occasione  di un amico sacerdote che in questi giorni si trova a Roma per il Giubileo sacerdotale, per farLe pervenire senza alcuna pretesa - da semplice parroco di tre piccoli parrocchie di montagna, preferisco farmi chiamare ‘pastorello’ - alcune considerazioni sul mio semplice servizio pastorale, provocate - La ringrazio di cuore – da alcune cose che Lei ha detto e che mi chiamano ogni giorno alla conversione. Sono consapevole di scriverLe nulla di nuovo. Certamente avrà già ascoltato queste cose. Sento il bisogno di farmi anche io portavoce. Mi ha colpito, mi colpisce quell’invito che Lei più volte fa a noi pastori di avere l’odore delle pecore. Sono in montagna e so bene cosa vuol dire. Si diventa preti per sentire quell’odore, che poi è il vero profumo del gregge. Sarebbe davvero bello se il contatto quotidiano e la frequentazione assidua del nostro gregge, motivo vero della nostra chiamata, non fosse sostituito dalle incombenze amministrative e burocratiche delle parrocchie, della scuola dell’infanzia e di altro. Ho la fortuna di avere dei bravi e validi laici che seguono dal di dentro queste cose. Ma c’è sempre quell’incombenza giuridica del parroco, come unico e solo legale rappresentante. Per cui, alla fine, lui deve sempre correre dappertutto, relegando a volte la visita agli ammalati, alle famiglie come ultima cosa, fatta magari velocemente e in qualche modo. Lo dico in prima persona, a volte è davvero frustrante constatare come nella mia vita di prete si corra tanto per l’apparato burocratico e amministrativo, lasciando poi la gente, quel piccolo gregge che mi è stato affidato, quasi abbandonato a se stesso. Mi creda, Santo Padre, è triste e tante volte mi viene da piangere per questa carenza. Uno cerca di organizzarsi, ma alla fine è solo il vortice delle cose quotidiane. Come pure un altro aspetto, richiamato anche da Lei: la carenza di paternità. Si dice che la società di oggi è carente di padri e di madri. Mi pare di constatare come a volte anche noi rinunciamo a questa paternità spirituale, riducendoci brutalmente a burocrati del sacro, con la triste conseguenza poi di sentirci abbandonati a noi stessi. Una paternità difficile, che poi si ripercuote inevitabilmente anche sui nostri superiori, presi anche loro da comprensibili incombenze e problematiche, rischiando così di vivere con noi un rapporto formale, legato alla gestione della comunità, più che alla nostra vita di uomini, di credenti e di preti. Tutto questo – e concludo – non toglie comunque la gioia e la passione di essere prete per la gente e con la gente. Se a volte come pastore non ho l’odore delle pecore, mi commuovo ogni volta del mio gregge che non ha perso l’odore del pastore! Che bello, Santo Padre, quando ci si accorge che le pecore non ci lasciano soli, hanno il termometro del nostro essere lì per loro, e se per caso il pastore esce dal sentiero e si smarrisce, loro lo afferrano e lo tengono per mano. Non smetterò mai di ringraziare il Signore, perché sempre ci salva attraverso il suo gregge, quel gregge che ci è stato affidato, quella gente semplice, buona, umile e serena, quel gregge che è la vera grazia del pastore. In modo confidenziale Le ho fatto pervenire queste piccole e semplici considerazioni, perché Lei è vicino al gregge, è capace di capire e può continuare ad aiutarci e sostenerci. Prego per Lei e La ringrazio, come pure per quelle “tiratine di orecchie” che sento necessarie per il mio cammino. Mi benedica Papa Francesco e preghi per me e per le mie parrocchie”. Firma e alla fine quel gesto proprio dei pastori: “Le lascio una piccola offerta. Preghi per le mie comunità, in particolare per alcuni ammalati gravi e per alcune famiglie in difficoltà economica e non solo. Grazie!”

Questo è un fratello nostro. Ce ne sono tanti così, ce ne sono tanti! Anche qui sicuramente. Tanti. Ci indica la strada. E andiamo avanti! Non perdere la preghiera. Pregate come potete, e se vi addormentate davanti al Tabernacolo, benedetto sia. Ma pregate. Non perdere questo. Non perdere il lasciarsi guardare dalla Madonna e guardarla come Madre. Non perdere lo zelo, cercare di fare… Non perdere la vicinanza e la disponibilità alla gente e anche, mi permetto di dirvi, non perdere il senso dell’umorismo. E andiamo avanti!